Come ben dice Attilio Andreini, è fondamentale parlare. È nostra responsabilità in quanto intellettuali, insegnanti, e attori politici. Non solo e non tanto per costruire tracce interpretative da lasciare ai posteri, ma perché gli eventi di Hong Kong sono assolutamente pressanti ma politicamente oscuri, ed è nostro dovere di usare quel poco di conoscenze che abbiamo per cercare di fare un po’ di chiarezza, di offrire visioni che vadano al di là della bieca opposizione democrazia-totalitarismo.
Indi, sì, è fondamentale parlare, ma il problema è come parlare.
L’intervento di Stefania Stafutti sul Corriere penso fosse appunto motivato dal desiderio di rompere il silenzio, di aprire una conversazione, e in questo senso va certamente apprezzato. Ma, al di là di questo, mi chiedo quali effetti politici e intellettuali possa avere una lettera aperta al presidente cinese. Non mi aspetto che da qui noi si possa fare granché per intervenire in alcun modo nella situazione a Hong Kong e di certo la lettera non ha alcuna pretesa di raggiungere il supposto destinatario né di influenzarne le scelte. Ma ci aiuta a capire meglio quel che succede in Cina? Ci offre – e offre ai nostri lettori e agli studenti – una nuova prospettiva per interpretare i complessi eventi di Hong Kong? Direi proprio di no.
Anzi, nell’invitare Xi Jinping a incontrare i “ragazzi di Hong Kong”, la lettera ci ripropone un dualismo che riflette la retorica della guerra fredda, con la personificazione dell’autoritarismo contrapposta a una generica spinta democratica dal basso incarnata in una mal definita gioventù. Non a caso la lettera finisce con invocare un “dialogo tra la Cina e l’Occidente,” come se queste due posizioni fossero chiaramente identificabili o internamente coerenti, e come se la distinzione fra queste due supposte realtà fosse ovvia e naturale. Se c’è una cosa che questi mesi di proteste a Hong Kong ci hanno rivelato è proprio come queste contrapposizioni siano non solo semplicistiche ma anche pericolose. Il movimento di protesta sfugge a semplici definizioni, incluse quelle generazionali. E mentre è doveroso sostenere il desiderio di qualsiasi popolo all’autodeterminazione, come conciliare questo presunto afflato “democratico” con l’ostentazione nostalgica di simboli del passato coloniale o con appelli all’interventismo imperialista americano? La protesta di Hong Kong rappresenta solo una lotta all’interno dello stato cinese o segnala invece una crisi globale del capitalismo e del suo rapporto con lo stato-nazione? (Hong Kong ha un coefficiente Gini comparabile a quello della RPC e la penetrazione dei capitali cinesi ha creato nuovi squilibri). D’altro canto, identificare Xi Jinping come il solo responsabile elide le opinioni di una grande maggioranza di cinesi che vedono Hong Kong come parte integrante della Cina e che dissentono dalle opinioni e dalle rimostranze dei manifestanti.
Questa è una crisi molto difficile da interpretare, soprattutto “da sinistra,” perché non si adatta a nessun modello esistente di liberazione nazionale o di opposizione masse-capitale. Per quanto le condizioni socio-economiche di Hong Kong siano un fattore cruciale e per quanto le proteste includano elementi di critica al sistema economico vigente, questo non sembra essere un motivo dominante. Ed è difficile parlare di anti-imperialismo quando i manifestanti sbandierano invocazioni a Donald Trump. La rapida intensificazione della violenza rende tutto ancora più complesso.
Come si diceva, è fondamentale parlare. Ma come “esperti,” quel che possiamo e dobbiamo fare di fronte a questa crisi è cercare di illustrarne la complessità, di sviscerarne i motivi e le diverse ispirazioni, di individuarne le tensioni e contraddizioni, senza mai ricadere nell’illusione consolatoria di facili dualismi.
Immagine: Hong Kong, foto di Rémi Lanvin.
Fabio Lanza è professore di storia della Cina moderna presso l’Università dell’Arizona. Fra le sue ricerche, incentrate soprattutto sullo studio dell’attivismo politico e dello spazio urbano nella Cina del Novecento, si segnalano i volumi Behind the Gate. Inventing Students in Beijing (New York: Columbia University Press, 2010) e The End of Concern: Maoism, Activism and Asian Studies (Durham: Duke University Press, 2017).