La lettera di Stefania Stafutti pubblicata sul Corriere il 21 novembre scorso e, in inglese, sulla Global Edition de Il Manifesto, mi induce a fare una serie di riflessioni. Più ancora che un accorato appello a promuovere il dialogo tra il Presidente Xi Jinping e gli studenti di Hong Kong, l’intervento di Stafutti mi è parso un invito a uscire allo scoperto e ad affrontare di petto le questioni scottanti, affinché ad affermarsi non sia un’unica ed esclusiva narrazione di ciò che sta accadendo e perché si arrivi a scrivere, a più mani, una Storia ricca, plurale. Con ciò, non intendo certo una Storia conciliante, edulcorata, ma autentica in quanto “plurima”. La riconciliazione, quella vera, nasce solo da narrazioni distinte e distanti che, da posizioni contrapposte, dialogano.
A distanza di qualche giorno dalla sua pubblicazione – questa è la mia prima riflessione – la lettera di Stafutti pare non abbia sollevato alcun tipo di reazione pubblica: né sostegno né critica. Silenzio. Ciò significa che prevale, almeno nel contesto accademico italiano, la volontà di evitare la trattazione di temi di attualità politica e si preferisca concentrarsi, invece, sulle questioni legate alla diffusione dello studio della lingua e della cultura cinesi. Del resto, però, l’acquisizione di chiavi interpretative culturali non può che presupporre l’analisi della Storia e, dunque, l’interpretazione di eventi anche politici sui quali diventa difficile non assumere posizioni “politiche”, laddove con “politico” intendo “sociale”, ovvero che pertiene alla sfera in cui pubblico e privato s’incontrano e, pure, si scontrano.
Da ciò deriva una seconda riflessione, che investe direttamente il mio ruolo di professore, di docente: a quale narrazione storica verrà consegnato l’oggi se mancheranno voci, parole, immagini capaci di rappresentarlo in tutta la sua complessità? Come potrà mai imprimersi una traccia interpretativa da trasmettere ai posteri se io per primo, che sono chiamato a professare, taccio?
Ho immaginato di trovarmi in un imprecisato futuro e di guardare indietro, a un passato che è il presente attuale e tangibile. Mi sono chiesto come avrei voluto che fossero stati rappresentati, nel frattempo, gli eventi che oggi mi turbano e che sono così contorti, contraddittori, indecifrabili. Mi sono chiesto se, da quell’imprecisato futuro, non avessi provato rammarico per aver taciuto, per aver atteso oltremodo il delinearsi di qualcosa di chiaro e finalmente leggibile ma che, in verità, mai giunge a disvelarsi pienamente. Questo perché ritengo che i fatti e le loro interpretazioni s’impastino e diventino, insieme e inestricabilmente, quella materia vivente che è la Storia. In fondo, è nel rappresentare la Storia che si partecipa al suo divenire. Parlare, pronunciarsi, è già “fare”, avrebbe detto Confucio (479-551 a.C.), poiché per correggere il mondo è necessario, prima, usare correttamente i nomi con i quali chiamare le cose. Secondo il Maestro, infatti, ci si affaccia su quel proscenio che è la vita sociale attraverso la parola, descrivendo il mondo e, al contempo, affermando su di esso la propria visione di zoon politikon, di “creatura sociale” che non può sottrarsi ai propri doveri politici e morali. La persona esemplare professa ciò che è lasciando una traccia, che si riassume nell’impegno di fronte ai propri simili di portare a compimento ciò che dice.
La Storia è una foresta di appigli cui le varie civiltà si aggrappano per forgiare, di volta in volta, identità aleatorie e posticce, pronte a essere ridefinite a seconda delle volontà del potere. Ognuno di quegli appigli, però, è a sua volta una traccia lasciata da qualcuno perché altri elaborino interpretazioni anche discordanti.
Rendiamo dura la vita ai censori del futuro, a quelli che vorranno cancellare, espungere, purgare, “sbianchettare” quei nei che disturbano la narrazione piatta e omologata dei fatti.
Ecco perché è fondamentale parlare. Anche di ciò che sta accadendo a Hong Kong.
Immagine: Wang Mang l’usurpatore
Laureato in Lingue e Letterature Orientali a Ca’ Foscari (1994), allievo di Maurizio Scarpari, Attilio Andreini ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Orientalistica nel 1999 presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli dopo aver trascorso soggiorni di ricerca negli Stati Uniti (University of California at Berkeley; University of Hawai’i at Manoa) e nella Repubblica Popolare Cinese (Peking University). Dal 1998 insegna all’Università Ca’ Foscari Venezia.
I suoi principali ambiti di ricerca interessano vari aspetti dell’universo culturale cinese antico, in particolare la genesi delle dottrine filosofico-religiose, la produzione dei testi e la trasmissione del sapere, toccando filologia, codicologia e paleografia.
Attualmente Attilio Andreini ricopre l’incarico di direttore di parte italiana dell’Istituto Confucio presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.