Primavera dovrebbe avere l’odor di primavera… un odore d’erbe e fiori, che si spande lieve, azzurro, pigramente… oppure un denso aroma verde, robusto e pizzicante come grappa nel budello di una via… E invece quella sera, a Wujiapo, sul fare del tramonto, la gente annusò l’odor del sangue… che scendeva giù dal passo rancido, grondante, un grumo rugginoso dopo l’altro, come chiazze di cachi autunnali in un primaverile boschetto verdeggiante. «Ma che è ‘sto tanfo?» disse qualcuno. E tutti gli altri, venuti a consumare la cena sulla spianata all’entrata del villaggio, trattennero a mezz’aria le ciotole del riso, alzarono la testa e tirando su col naso sentirono una gran zaffata. L’odore del sangue.1)Si ringrazia l’editore Atmosphere per avere permesso la ripubblicazione su Sinosfere di questo racconto, già parte della raccolta Il podestà Liu e altri racconti (Roma: Atmosphere, 2017) tradotta e curata da Marco Fumian. Il racconto, il cui titolo originale è Hei zhu mao, bai zhu mao 黑猪毛,白猪毛, è stato originariamente pubblicato in Cina nel 2002.
«È il beccaio che accoppa i maiali» fece qualcuno.
Poi tornò il silenzio, e la gente ricominciò a mangiare e a bere. Sapevano che l’indomani era l’ultimo del mese, e che era giorno di mercato: non era dunque ovvio che il beccaio si mettesse a macellare? E però, solitamente, era verso l’alba che il beccaio macellava, così da andare al mercato in mattinata con la carne ancora fresca. Com’è che allora oggi macellava all’imbrunire? Com’era che quel sangue pizzicava più del solito? Nessuno, tuttavia, se ne diede gran pensiero. Era di nuovo primavera: il grano, svegliatosi dal sonno dell’inverno, cresceva già frusciante per i campi, insieme all’erba che, pazza, gli correva dietro. C’era da zappare, concimare, innaffiare; le famiglie sgambettavano come sciami di formiche, cosa mai poteva fregargliene di quel che si faceva in casa d’altri?
Il beccaio abitava in cima al passo, a fianco della carrozzabile, a ridosso di un incrocio. Una posizione davvero conveniente per uno che, come lui, aveva lasciato il lavoro dei campi per darsi a quello del commercio: vuoi per gli spostamenti, vuoi perché c’era sempre della gente, da quelle parti, che per un matrimonio o un funerale passava a fargli macellare qualche bestia. Così, e per la convenienza e per il bene degli affari, il beccaio, che di cognome si chiamava Li, se n’era andato dal villaggio, e vi si era trasferito. Si era fatto una casa a due piani, circondata da una cinta di mattoni, e lì, al piano di sotto macellava – e vendeva un po’ di merci e di vivande – e a quello sopra ci abitava, avendoci pure ricavato due stanze da affittare. Se c’era qualche passante che stanco si voleva trattenere, poteva sedersi al piano di sotto per farsi due frattaglie e un po’ di grappa, e poi andare su, alticcio e barcollante, per la notte. All’alba, rimessosi dalla fatica e dalla sbornia, pagava il suo dovuto e riprendeva la sua strada.
Non far caso alla modestia degli alloggi – un letto, una tavola, una lampadina fioca, o un tozzo di candela se se ne andava via la luce: lì, in una di quelle due stanze, ci aveva dormito nientemeno che il segretario del distretto.2)La Cina a livello amministrativo è suddivisa, in ordine decrescente, in “province” (o municipalità autonome, come quelle delle città di Pechino e Shanghai), “prefetture” (a cui fa capo una “città”), “distretti” e, al di sotto di questi ultimi, in “borghi” o “comuni”, i primi contraddistinti dalla presenza di un piccolo centro urbano, i secondi invece prevalentemente rurali, e quindi meno densamente popolati. Al di sotto di borghi e comuni, e da essi direttamente amministrati, ci sono infine i “villaggi”, che costituiscono la più piccola unità amministrativa cinese e sono caratterizzati dalla loro natura agricola. Ogni unità amministrativa cinese al di sopra del livello di villaggio è governata sia da un “capo”, che rappresenta il potere dello stato, sia da un “segretario del partito”, che rappresenta il potere del Partito Comunista. Dicono vi si fosse acconciato perché aveva l’auto in panne. Ma quelle, per il beccaio, erano tutte bischerate: poteva forse l’autista del segretario permettersi di lasciargli l’auto in panne? Era per informarsi su come procedeva l’arricchimento della gente, diceva, era perché voleva discutere con lui della questione, che il segretario s’era abbassato a trattenersi lì per una notte. Fosse come fosse, il segretario Zhao lì ci aveva dormito veramente, e con quella dormita aveva fatto lievitare i suoi affari. Il tavolo, il letto, le coperte, il bacile e le ciabatte della stanza a est – quella usata dal segretario Zhao – una volta degnamente ripulite divennero cimeli a disposizione di ogni ospite; cosa che fece salire il prezzo della stanza da dieci a quindici yuan. E, poiché anche i passanti hanno le loro piccolezze, tutti volevano dormire dove aveva dormito il segretario, non importa se il prezzo era più alto. C’erano camionisti che guidavano non-stop, col piede pigiato sulla tavoletta, pur di fermarsi a dormire in quella stanza. Vero che c’erano pure quelle frattaglie profumate, e quella schietta acquavite del posto, a dare al beccaio Li, in quel di Wujiapo, la sua cospicua fama. Pertanto, quella sera, nessuno al villaggio poté sorprendersi se a casa del beccaio capitavano cose mirabili: non poteva essere altrimenti, se perfino il segretario distrettuale ci aveva pernottato. Nel giorno del mercato, lui macellava al tramonto anziché all’alba riempendo quella serata di primavera con un tanfo di sangue di maiale: c’era qualcosa di incredibile in tutto ciò? Tanto una volta ucciso, sgozzato, aperto in due, sciacquato per bene e infine ravvolto come si deve nel cellofan, qualcuno si sarebbe forse accorto, il giorno dopo, che il maiale non era fresco?
Sulla spianata, la gente continuò a mangiare discorrendo. Qualcuno rientrò in casa a riempirsi un’altra ciotola, qualcuno, non avendo voglia di alzarsi, vi mandò il figlio maschio, il quale, essendo a sua volta appena uscito con la ciotola in mano, levò un mugugno in direzione dei genitori, che ingrugnati lo rimbrottarono: «Malnato! Noi ti abbiamo tirato su e a te ti fa fatica perfino andare a prenderci una ciotola… Tanto meglio! A saperlo, non ti mettevamo neanche al mondo!» E il figlio, che pure non aveva detto di no e per una semplice esitazione era stato messo alla berlina, scattò su offeso: «E chi ve lo ha detto, a voi, di mettermi al mondo?» Cosicché i genitori, allibiti, si tolsero da sotto il sedere una scarpa e gliela lanciarono dietro, sollevando sulla spianata un tale polverone che molti si dovettero nascondere la ciotola dietro al braccio. Intanto, sulla spianata, tra la polvere, si sentì un grido secco. «Ohé, ma che è tutta ‘sta cagnara! Sarà mica sbagliato che i figli portino la cena ai genitori?»
Subito calò il silenzio. Il ragazzino, colto in castagna, si azzittì.
I presenti volsero lo sguardo verso quel grido e videro Li Xing, il beccaio, che tornava al villaggio scendendo per la strada giù dal passo.

Liu Genbao tornò a casa così nervoso e titubante che gli pareva di aver lasciato lo spazio libero dei campi per andare a rinchiudersi in un’aula a fare esami. Il padre, avendo già mangiato, se ne stava a fumare nella corticina, nel buio della sera rotto a tratti dal balenare della brace. La madre era in cucina a lavare i piatti, che tintinnavano nell’acqua sbatacchiandosi sommersi nel catino. Genbao infilò la gamba nel cucinino, posò la sua scodella ancora mezza piena sul bordo del fornello e fece per dir qualcosa, ma si limitò a guardare la madre; quindi insaccò la testa e uscì, andando ad accosciarsi di fronte al padre.
«Che hai?» gli chiese quello.
«Niente» fece Genbao.«Se hai qualcosa dillo».
«Papà» disse Genbao, «voglio andarmene in galera».
Il padre sbigottì. Il suo volto, alla luce della brace bruscamente ravvivata, apparve vagamente irrigidito, e l’espressione, prima spennellata di colori morbidi, si fece dura come pietra. Staccata la pipa dalle labbra, il vecchio fissò il figlio come se di fronte avesse uno sconosciuto che gli chiedeva la strada.
«Genbao» gli disse, «si può sapere che stai dicendo?»
Genbao di nuovo spiò il padre. Nel buio, però, non riuscì a scorgere quanto profondo fosse lo stupore sul suo viso, né quanti chili pesasse, e vide invece soltanto una macchia nera piantata immobile come un ceppo d’albero. Sicché, visto che tanto non ci vedeva, smise del tutto di sforzarsi e invece, toltasi una scarpa, si sedette di fronte al padre e, appoggiati i gomiti sulle ginocchia, prese a sgranarsi le dita come fossero baccelli, e lì per lì non rispose.
«Genbao, che stavi dicendo?» domandò di nuovo il genitore.
«Papà, avrei una cosa da discutere» rispose lui. «Se tu e mamma acconsentite, voglio farmi qualche giorno di galera, al posto di qualcun altro».
«Cazzo» sbottò il padre, «ma sei ammattito?»
Genbao insaccò ancor più la testa e disse: «Papà, non stavo appunto discutendo?»
Il padre tacque un poco. «E al posto di chi andresti?» chiese infine.
«Al posto del capo del borgo» disse Genbao.
«Eh?» drizzò la testa il padre.
«Sì, il capo del borgo» disse Genbao.
«E il capo del borgo si fa sostituire da te?» ridacchiò perplesso il padre.
«Il beccaio Li, sulla spianata, ha appena detto» rispose Genbao, «che stasera il capo del borgo passando con la macchina dalle parti di casa sua ha messo sotto un giovane che avrà avuto poco più di vent’anni, del villaggio di Zhangzhai. Ha detto che siccome l’ha ammazzato adesso deve prendersi le sue responsabilità. Il fatto è che lui appunto è il capo del borgo: potrà mica prendersele lui le responsabilità? Così serve qualcuno che vada alla Stradale del distretto a incolparsi, a dire sono stato io, ero a casa del beccaio, ho bevuto troppo, sono uscito col trattore e l’ho messo sotto. Per il resto non occorre preoccuparsi, pensa a tutto lui. Ha detto che la questione è già stata chiarita, e che si tratta solo di risarcire la famiglia del morto con un po’ di soldi. Ovviamente sborsa tutto il capo del borgo. E poi, ah, qualcuno ha detto che chi l’ha messo sotto si farà un dieci-quindici giorni nella cella del commissariato».
La luna era già alta e Wujiapo, sotto ai suoi raggi, era così quieto da non parere neanche un villaggio. In strada si udiva distinto un ticchettar di passi, che si allontanavano sfumanti da ovest verso est, per poi svanire verso la casa del beccaio. La madre sembrava aver sentito molto bene i ragionamenti di Genbao; ma invece di venire subito a metter becco, aveva tirato fuori un cestino di arachidi, aveva sistemato uno sgabello a metà tra padre e figlio e, dopo avervi posato il cestino, si era infine seduta per terra lì di fronte. Quindi osservò il figlio, spiò il marito, e dopo aver tirato un lungo sospiro si calò pure lei nella mutezza dei due maschi.
Il punto era che Genbao aveva già ventinove anni, e non aveva ancora preso moglie: una cosa che, in tutta Wujiapo, c’era solo nella famiglia Liu. E perché? Certo erano poveri, anche se non più come una volta: di questi tempi, quando tutte le famiglie da un pezzo s’erano fatte la casa di mattoni, gli unici che abitavano ancora nella casa di fango erano i Liu.3)Si è scelto di usare l’espressione “case di fango” per tradurre il termine cinese caofang (dove cao, il determinante, significa “erba”, “paglia”, e fang, il determinato, significa “casa”, “edificio”), termine che designa le abitazioni costruite con mattoni di terra secca mista a paglia, e con il tetto sovente ricoperto di paglia; mentre si è tradotto con l’espressione “case di mattoni” il termine wafang (in cui wa significa tegola), che designa invece le abitazioni con le pareti di laterizio e il tetto rivestito di tegole. Se fino agli anni Ottanta era piuttosto comune, nelle campagne povere della Cina settentrionale, abitare nelle cosiddette case di fango, con la crescita economica innescata con il processo di Riforma e Apertura i contadini hanno cominciato a costruire, in numero sempre maggiore, abitazioni di mattoni, che diventavano lo status symbol della loro prosperità (o del loro fallimento se non riuscivano, come nel caso della famiglia di Genbao, a costruirle). Ma il problema, più di tutto, era che Genbao era un tale calabraghe! Perfino quando le bestie gli andavano a mangiare il raccolto lui aveva paura di andare a badilarle sulla groppa, pensando che avevano un padrone. E chi mai se lo pigliava, un tale buono a nulla? Inizialmente c’erano anche stati dei maneggi ma poi, immancabilmente, le donne che venivano a conoscerlo, non appena lo vedevano se ne andavano via mute, e andava sempre tutto alle ortiche. Col risultato che adesso, con gli anni che aveva, era perfino difficile incontrare una donna divorziata. Sei mesi prima dei parenti gli avevano proposto, senza neanche dirgli se era bella o brutta, una vedova di appena ventisei anni, con due figli. Lui aveva detto no, ma quelli gli avevano detto di aspettare, prima di decidere, almeno di vederla. Così lui l’aveva incontrata e quella appena arrivata a casa aveva subito chiesto: «Hai fratelli maschi?»
«Sono figlio unico».
«Ce ne sono tanti della tua famiglia al villaggio?»
«Nel villaggio di Liu ci siamo solo noi».
«Non hai parenti che fanno i quadri nel villaggio o nel comune?»
Lui scosse brevemente il capo.
Quella allora, accesasi come un fiammifero, scattò dallo sgabello: «Ma allora cosa mi hai fatto venire a fare? L’intermediario non ti ha detto che il mio fu marito si è impiccato dopo che è stato fatto menare da uno più forte di lui, e tutto a causa di una lite per l’acqua dei campi? Non ti ha detto che non chiedo né soldi né altro, ma solo un uomo con le spalle larghe? Non dico per fottere gli altri, ma almeno perché gli altri non ti fottano, quello sì!» La donna allora si voltò per andarsene ma poi, uscita nella corticina, si girò di colpo a guardarlo negli occhi: «Proprio oggi era giorno di mercato, e io con la scarpinata che ho fatto per venir qui ho perso un’intera giornata di lavoro. Quando vado al borgo a vendere due cocomeri di solito faccio settanta-ottanta kuai in un giorno, e invece oggi ciccia, grazie a te. Non dico che mi devi risarcire settanta-ottanta kuai, ma almeno cinquanta me li devi dare, no?»
«Cosa?» disse Genbao impietrito.
«Dico che mi hai fatto buttare una giornata di lavoro, devi pagarmi cinquanta kuai».
«Come puoi essere così spudorata?» sibilò Genbao.
«Bravo, sì, spudorata! … Perciò, o mi riempi di botte, o mi dai cinquanta kuai, sennò col cavolo che mi schiodo. Guarda che se non lo fai mi metto a gridare proprio qui dentro e dico a tutti che mi hai messo le mani addosso».
Messo alle strette, Genbao dovette tornarsene dentro casa a prendere una banconota da cinquanta yuan, che cacciò nella mano della vedova dicendole di non farsi mai più vedere a Wujiapo.
Lei prese i soldi, li guardò e gli disse che se avesse avuto il coraggio di darle un manrovescio lo avrebbe sposato.
«Vattene» disse lui, «i soldi li hai avuti, ora te ne puoi andare».
«Giuro che se hai il coraggio di prendermi a pugni e a calci do via i miei figli e mi sposo con te».
«Sei malata» rispose Genbao, «hai problemi di testa: va’ a farti vedere all’ospedale del distretto».
Così la donna gli gettò i soldi in faccia e se ne andò. Fatti pochi passi, tuttavia, si girò di nuovo: «Sei un uomo senza nervo, chi ti sposa può star sicura che avrà una vita di maltrattamenti».
In realtà, nessuno maltrattava la famiglia di Genbao. Era solo che, essendo i Liu una famiglia sola, priva nel villaggio di alcun vincolo di clan o di parentela, non c’era nessuna, nessuna donna che fosse disposta a venirgli in casa per fare da moglie a Genbao. Oggi aveva ventinove anni, domani trenta: l’età, ormai, pesava. Andare per i trenta e non avere ancora né una famiglia né un’attività, al villaggio, era una cosa che non solo faceva andare Genbao in giro con la coda tra le gambe, ma che riempiva i genitori di rimorso, facendoli sentire eternamente in colpa nei confronti del figlio.
Il padre si fece un’altra fumatina, riempì un’altra volta la pipa, ma invece di attizzarla la posò accanto ai piedi; poi, senza motivo, abbrancò delle arachidi e cominciò a sbucciarle. Tuttavia non le mangiò; invece, osservò sotto la luce della luna prima il figlio che sedeva, con la testa insaccata, sulle proprie scarpe, simile a un fagotto abbandonato per terra, poi la casa di fango che da tempo avrebbe voluto rifare, ma non aveva i soldi. Era bassa, diroccata, il tetto di paglia con due crateri che volevano sprofondare e che sotto la luna parevano fosse da morto. C’erano poi quel cucinino cieco, gli orci crepati davanti al cucinino: pure questo vedeva bene nella luna. I muri della porcilaia vicino a lui, con lo stipite e la vasca di pietra, invece, erano sani; eppure, chissà perché, mai una volta che si riuscisse a tirar su un maiale. Il maiale gli moriva, la capra gli moriva, le galline invece sì, quelle gli venivano robuste, e tuttavia facevano un uovo ogni quattro, cinque giorni, perfino nella stagione feconda, e mai che ne facessero uno ogni due, figuriamoci uno al giorno come capitava agli altri, o addirittura tre o quattro ogni due giorni. Questa era la vita della famiglia Liu. Il padre di Genbao, come se ne avesse compresa la sostanza, strappò via lo sguardo dalla luna, mangiò le arachidi che aveva in mano e si lamentò che non avevan olio. «Mangia» disse la moglie, «ce le ha portate oggi lo zio di Genbao quand’è venuto giù dal passo». Lui prese un’altra manciata di arachidi, le sbucciò facendole scrocchiare fra le dita e disse a Genbao: «Tiè, mangia».
«Non le voglio».
«E tu come lo sai che chi si fa mettere dentro al posto del capo del borgo si fa al massimo quindici giorni di galera?»
«L’ho saputo dal beccaio».
«E lui da chi l’ha saputo?»
«Ma quello sa tutto di tutto! Il capo del borgo ha fatto l’incidente davanti a casa sua, perfino il segretario distrettuale ha dormito a casa sua!»
La madre finalmente mise bocca: «E quando uno esce di galera che succede?»
«Taci, tu!» la fulminò il padre. «Che succede? Succede quel che deve succedere. Se è riuscito a diventare capo del borgo riesce anche a prendersi cura di nostro figlio».
Poi si voltò a guardare il figlio e disse: «Genbao, se davvero vuoi andarci vai. Va’ a parlare col beccaio e digli che ti va di andare in galera al posto del capo del borgo. Ricordati che il beccaio si chiama Li Xing; tu chiamalo zio Li Xing ed evita assolutamente di chiamarlo beccaio».
Nel frattempo la luna era già arrivata in cima e la corticina era sempre più chiara, tanto che perfino le ali dei grilli, nel loro frinire, mandavano lampi d’argento. Come Genbao si alzò da terra per andarsene, la madre afferrò una manciata di arachidi e lo rincorse: «Ehi, mangiali per strada, sono buoni, ce l’hanno l’olio!» Lui scansò la mano della madre, disse che non li voleva, e se ne uscì senza voltarsi, come se partisse per un viaggio. Ma anche senza voltarsi sentì dietro le spalle quello scrocchiar di arachidi, che ricordava, sotto la luce della luna, uno scrosciare d’acqua casalingo, il quale, gorgheggiando, ti toglieva il cuore di andartene.

A casa del beccaio c’era un gran daffare. In cortile erano state portate due lampade da duecento watt ciascuna, che avevano fatto impallidire, fino a oscurarla, la pur brillantissima luna. Gente era venuta da una miniera per chiedere al beccaio, avendo da festeggiare, di macellargli su due piedi un po’ di bestie. Metti che domani era mercato, e che non poteva lasciare a bocca asciutta i suoi clienti affezionati, sta di fatto che il beccaio, in aggiunta alla sua solita tavola, aveva pure tirato giù una porta e ne aveva fatto un altro piano di lavoro. E mentre macellava, si faceva aiutare da due ragazzotti che aveva fatto venire da un altro villaggio, ai quali dava dieci kuai all’ora per ogni maiale lavorato.
Nel cortile si assiepava una gran folla. C’erano quelli venuti dalla miniera, bambini che bighellonavano, e villici dei villaggi vicini venuti nottetempo a vendere le bestie, in attesa che fossero pesate per farsi pagare. Genbao, nell’uscire dal villaggio, e nel sentire quelle strida insanguinate, ebbe un brivido di freddo; e tuttavia riuscì veloce a dominarsi e a smetter di tremare. Erano pur sempre maiali, pensò, mica persone. Poi giunse a casa del beccaio e, oltre la soglia del cortile, larga che ci passava una macchina, trovò quest’ultimo in piedi davanti a due carcasse di maiali, appese sotto la pergola, la schiena nuda, intento a innaffiarle con mestolate di acqua fresca. Un misto di acqua e sangue gocciolava rosso in terra, formando un piccolo pantano che, confluendo in uno scolo, andava a defluire dietro all’abitazione. Il mondo aveva l’odore acre del sangue crudo. Uno dei due aiutanti faceva bollire un gran pentolone per scottare le setole del porco, l’altro le raschiava con una lamella sopra un’asse. Le setole avevano un odore strano: fetido, come pelle cauterizzata di bestia selvatica. Era un odore, quello, che a casa del beccaio aleggiava dodici mesi all’anno. Genbao non capiva come il segretario del distretto avesse potuto pernottare lì. Eppure, che quello avesse dormito dal beccaio, era senz’altro vero: al secondo piano dell’abitazione che aveva innanzi agli occhi, all’ingresso della stanza a est, si vedeva una targa immacolata che diceva: qui soggiornò il segretario distrettuale Zhao. Genbao vide che era stata aggiunta una targa anche all’ingresso della stanza a ovest, che invece recitava: qui soggiornò il capo del distretto Ma. La cosa lo lasciò un po’ spiazzato: non aveva idea di quando il capo del distretto avesse soggiornato lì; eppure, pensò, doveva averlo fatto per forza, sennò mica il beccaio avrebbe potuto appendere una targa.
Intanto che osservava, Genbao si pigiò nella folla e si avvicinò alle spalle del beccaio; poi, quando quello ebbe finito di tolettare uno dei due porci, a bassa voce lo chiamò: «Zio Li».
Ma quello invece di girarsi si tirò via dalle spalle le gocce d’acqua mista a sangue, si terse col braccio il sudore della fronte e fattosi sotto alla seconda carcassa sanguinolenta di nuovo riattaccò a mestolare. Pur non voltandosi, sentì che qualcuno lo chiamava, e così, continuando a mestolare, domandò: «Genbao, sei tu?»
«Sì!… sono io, zio Li».
Il beccaio cacciò una mestolata nella pancia del maiale:
«È perché vuoi farti incriminare al posto del capo del borgo, vero? Che occasione! Neanche se uno si inginocchia a bruciare incensi gli capita un’occasione simile!»
Uno schizzo di acqua e sangue cadde sulla faccia di Genbao.
«Ne ho discusso con mio padre, per me va bene» disse facendo un passo indietro.
Il beccaio buttò un’altra mestolata.
«Non è sufficiente che a te vada bene. Va’ ad aspettare in casa, prima».
Solo quando entrò nella sala dove di solito desinavano i clienti del beccaio, Genbao vide che erano già seduti tre compaesani. Uno era Wu Zhuzi, un uomo sulla quarantina rimasto solo dopo che sua moglie era scappata con un altro portandosi via i figli e, non volendone sapere di tornare a casa, s’era rintanata nella casa del fratello di un quadro locale in un villaggio lì vicino. Un altro era Zhao lo sciancato, uno che fino a non molto tempo prima se la passava piuttosto bene ma che poi, rimasto cionco in seguito al crollo di una fornace, aveva avuto un tracollo pure lui, e ora aveva un grosso debito con la cassa rurale. Poi c’era Li Qing, che faceva affari giù al borgo, e possedeva pure una GAZ con cui faceva autotrasporti. Genbao lo sapeva che Zhuzi e lo sciancato, avendo avuto la sua stessa pensata, puntavano a farsi qualche giorno di galera al posto del capo del borgo, uno per chiedergli di fargli tornare la moglie, l’altro perché sperava che aiutandolo sarebbe riuscito a farsi abbonare il debito. A cosa diavolo mirasse Li Qing invece non lo sapeva; sta di fatto che anche lui era lì, piantato intorno a quel tavolo insieme a Zhuzi e allo sciancato. Perciò, quando mise piede nella sala e tutti si voltarono a guardarlo, Genbao fece cadere lo sguardo su Li Qing, più giovane di lui di un anno.
Questi, come se avesse appena arraffato qualcosa che non gli apparteneva, incurvò la testa imbarazzato e disse che, siccome suo fratello minore quell’anno aveva finito la scuola magistrale, voleva chiedere al capo del borgo se poteva trovargli un posto da insegnante.
Al che Zhuzi gli indirizzò uno sguardo freddo: «Non ti bastava quello che già avevi?»
Li Qing abbassò ulteriormente il capo e il viso gli si fece rosso come il sangue nel cortile.
Anche lo sciancato si diede allora a guardarlo storto. «Vattene» disse, «lascia che restiamo noi e Genbao a giocarci questa chance».
Li Qing alzò la testa e fece un altro risolino imbarazzato, ma da lì non si schiodò.
Genbao sedette sullo sgabello ancora vuoto. Di fronte c’era un tavolo rettangolare, di quelli che un tempo si chiamavano “degli otto immortali» e che adesso invece erano chiamati, secondo la parlata cittadina, “tavoli da ristorante”. Pure la sala si chiamava “ristorante”. Un ristorante grande tutt’al più quindici metri quadri, ingombro di granaglie, farina, olio e ogni sorta di varia mercanzia e in più, nello spazio rimanente, appunto, un tavolo. Sul tavolo c’era una teiera d’alluminio, ma poiché non erano clienti nessuno entrò a versargli da bere. In alto una lampadina, attorno a cui danzavano mosche e falene. Le falene quand’erano stanche si riposavano sul vetro della lampadina, mentre le mosche preferivano attaccarsi addosso a loro, o sulla superficie sudicia del tavolo.
Da fuori arrivò di nuovo il grido del maiale. Un grido ruvido e agghiacciante, simile al fischio del treno quando esce dalle montagne, soltanto un po’ più corto, e un po’ più sporco. Da una parte l’ansare del porco, dall’altra gli schiamazzi umani. Poi, in pochi attimi, di nuovo silenzio. Va da sé che la lama del beccaio aveva perforato il collo della bestia, squarciandolo fino alle interiora. A quel punto si sentiva solo la voce del beccaio che istruiva: «Bene, questo lo scuoiamo, mentre quello lo appendiamo e lo sventriamo». E intanto qualcuno commentava: «Ah, magro questo, ah, quello è grasso!» Nella sala faceva caldo. Il beccaio, troppo impegnato a far quattrini, non aveva tempo per andare nel ristorante, prendere in disparte uno di loro, e dirgli allora tu, tu ti fai incriminare al posto del capo del borgo, mentre voialtri… spiacente ma non se ne fa nulla. Può darsi che questa fortuna il beccaio non sapesse proprio a chi darla, e perciò si limitava a scannar maiali, senza curarsi che Genbao, Zhuzi, lo sciancato e Li Qing erano in casa ad aspettarlo. La moglie e il figlio erano di sopra a guardare la tivù, e da lì veniva un chiasso di combattimenti che sembrava lanciassero dal tetto tegole e mattoni. Genbao alzò il mento a guardare il soffitto e così fecero gli altri tre.
«È notte fonda» osservò Li Qing.
«Se hai fretta di andare vai» commentò Zhuzi.
«No che non ho fretta» fu la risposta di Li Qing. «Se occorre aspetto anche fino all’alba».
Così lo sciancato guardò Li Qing, poi si volse a fissare Genbao. «Fratello» gli disse, «a te non conviene di metterti al nostro livello: tu sei celibe, hai cultura; se te ne vai in galera ti fai una brutta fama, come farai a sposarti?»
Genbao voleva ribattere, ma lì per lì rimase a corto di parole. Per fortuna Li Qing gli tolse le castagne dal fuoco rispondendo al posto suo: «Se è lui che sostituisce il capo del borgo, praticamente è già bello che sposato». Genbao lo guardò riconoscente, e Li Qing ritornò lo sguardo annuendo. Dato che quest’ultimo era parente del beccaio, lì in casa pareva più a suo agio, così se ne andava in giro a mettere il naso dappertutto finendo a un certo punto perfino di sopra a guardare la tivù. Quando ridiscese andò pure a farsi un giro dal beccaio, per dirgli di sbrigarsi, e decidere chi, il giorno seguente, sarebbe andato a farsi incriminare. Ma quando tornò nella sala, dopo un lungo deambulare, disse solo: «Zio Li ha da fare, ha detto di sceglier noi chi sostituisce il capo del borgo». «Noi?! E chi scegliamo?!» Era chiaramente impossibile, nessuno sarebbe stato d’accordo a lasciare andare un altro. Perciò i quattro si guardarono a vicenda, videro che nessuno era disposto a fare un passo indietro, e alfine volsero lo sguardo altrove.
Il tempo passava, ticchettando come i passi di un bue. La notte era ormai fonda come un pozzo infinito. I quattro se ne stavano lì, seduti a consumarsi, fino a che al piano di sopra la televisione si azzittì, il macellaio accoppò in fila altri cinque maiali, e Zhuzi e lo sciancato si buttarono a sonnecchiare di fianco al tavolo. Il beccaio si era del tutto scordato di loro, pensò Genbao. E però, proprio mentre stava per decidersi ad andare a chiedergli se alla fine era lui che voleva mandare a farsi incriminare – se era sì ci andava, se era no si metteva il cuore in pace e se ne andava a casa a coricarsi – ecco che di punto in banco qualcuno martellò dei colpi sull’uscio della sala.
I presenti si riscossero dal sonno e ruotarono gli sguardi in direzione della porta.
Tuttavia non era il beccaio, bensì uno dei ragazzotti venuti ad aiutarlo. Dal coltello che aveva usato per bussare, erano caduti grumi di sangue coagulato che sembravan tofu. Il ragazzo, vedendo che erano tutti svegli, buttò sul tavolo quattro foglietti già appallottolati e disse: «Sentite, è notte fonda, zio Li non vuole farvi più aspettare; queste sono quattro pallotte, in una c’è una setola nera, nelle altre delle setole bianche. Chi di voi pesca quella nera va’ a fare da salvatore al capo del borgo, chi pesca quella bianca vuol dire che non era destino». Poi rimase in piedi sotto la luce a guardare le quattro pallotte e i quattro uomini presenti.
Tutti a un tratto avevano perso il sonno. Era dunque lì, in quelle quattro pallotte, che si celava il responso di chi si sarebbe incolpato per salvare il capo del borgo. Le pallotte, in realtà, erano una scatola di sigarette divisa in quattro parti, e perciò avevano tutte colori vivaci e propizi: ciononostante, tre di loro contenevano pur sempre delle setole bianche. I loro occhi, spalancandosi e illuminandosi, s’incollarono sul tavolo. Nessuno però osò pescare per primo.
«Su, pescate» disse il ragazzotto, «e poi si va tutti a nanna. Voi almeno avete il destino di provarci, io ci ho discusso con zio Li tutta la notte perché volevo farmi anch’io qualche giorno di galera, ma lui ha detto che siccome non sono di Wujiapo a me le pallotte non me le lascia proprio pescare».
«Ma… ci stai mica pigliando per il culo?» chiese Li Qing guardando il giovane.
«Chiamami pure figlio di puttana se vi sto prendendo in giro. È che voglio affittare due stanze per aprire un’attività vicino al municipio del borgo, ma a noi di campagna non ce le danno neanche morti; perciò cosa dite, due settimane in gabbia per conto del capo del borgo non mi aprirebbero tutte le porte del commercio? Non avrei finito di sbattermi correndo come uno stronzo a destra e a sinistra? Quindi muovetevi a pescare, così me ne torno ad accoppare i maiali».
Messo a tacere, Li Qing pescò per primo.
Poi seguirono gli altri.
Per ultimo pescò Genbao. Il quale, per via che le mani gli tremavano, e in più erano tutte sudate, finì per attardarsi e quindi, prima ancora di aver scartocciato del tutto la sua pallotta, sentì Zhuzi che rideva: «Ce l’ho io la setola nera, io! Adesso sì che mia moglie e i miei figli tornano a casa!» Poi schiaffò la carta al centro del tavolo per farla vedere a tutti: c’era davvero la setola nera, lunga quanto un pollice, lustra, adagiata nel suo involto come un filamento di spiga, per giunta olezzante di un vago puzzo di caprone.
«Benone, abbiamo il fortunato» disse il ragazzotto in piedi sulla porta. Tu domani vai a salvare il capo del borgo, voi invece adesso andate tutti a nanna».
«Cazzo» sbottò lo sciancato guardando la sua setola bianca, che subito gettò via con tutta quanta la pallotta. «Meglio andare a letto, va’».
Li Qing lanciò un’occhiata alla setola nera e muto sbaraccò per primo, non prima di aver tirato rabbiosamente un calcio contro la porta.
Poi se ne andarono anche gli altri. Genbao, uscendo dalla casa del beccaio, si voltò di nuovo a guardare le targhe commemoranti il soggiorno del segretario e del capodistretto; dopodiché volle andare a dare un saluto al beccaio, ma vedendolo girato di spalle, indaffarato a sventrare un suino, si avviò in silenzio verso la soglia del cortile e uscì.
Sulla strada del passo c’era un bel vento fresco. Dai campi gli venne incontro l’alito dei germogli del grano. Lui inspirò lungamente, e il sonno gli passò del tutto.

A casa i genitori non c’erano. Ma la corticina, non appena vi ebbe messo piede, fu tutto un profumo di youmo.4)Focaccia piatta di farina, fritta nell’olio. Entrato in casa scorse, su uno sgabello di fianco alla porta, un fagotto blu. Lo scartò e, proprio come aveva già intuito, era il pacco con i vestiti e i bagagli che la madre gli aveva preparato per andare a salvare il capo del borgo. C’erano braghe, camicie, scarpe e calzini; temendo che in quindici giorni non sarebbe tornato, gli aveva messo dentro perfino le magliette e le braghette estive. C’erano pure le pantofole di pezza, e tre paia di scarpette dell’esercito, nuove nuove, che erano state comprate chissà dove. Non sapeva perché mai la madre avesse voluto preparargli tutte quelle scarpe: a parte il fatto che ormai di farsi incriminare per il capo del borgo non se parlava più; ad ogni modo, se pure quella fortuna gli fosse capitata, sarebbe comunque tornato a casa in dieci o venti giorni, e dunque che bisogno aveva di tutte quelle scarpe?
La notte era un pozzo senza fondo, e nel villaggio, tolte le strida dei maiali che arrivavano dal passo, non si udiva neppure il tremolare della luna. Nella stanza aleggiava lieve l’odore stantio del sapone attaccato ai vestiti vecchi, misto a quello dolciastro della colla che veniva dalle suole delle scarpe. Genbao, dopo essersi soffermato un po’ davanti a quel fagotto, sortì di nuovo fuori, e infine, giunto davanti al banchetto della cucina, si arrestò. La madre gli aveva già messo da parte tutte le provviste per il viaggio. Il profumo di youmo, di cipolletta, di olio aromatico… parve colargli come acqua, dal banchetto fin sopra i piedi. Larghi come padelle, tagliati a croce, divisi ciascuno in quattro parti, gli youmo erano ammucchiati, dodici fette in tutto, al centro del banchetto.
Quella vista lo fece piangere.
Allora uscì dalla cucina per tornarsene nella corticina, dove si fermò a guardar lontano verso il punto fuori dal villaggio dove Zhuzi aveva casa. Da lì vide Wujiapo, immerso nel silenzio: una distesa di case di mattoni, tutte nuove, che corruscavano celesti al di sotto della luna. Solo i suoi quattro muri parevano sprofondare sotto la statura di quelle case, simili a rachitici ciuffi d’erba in un grande prato rigoglioso. Genbao si avvilì, stornò lo sguardo; ma proprio in quel momento vide spuntare nella corte, nonostante le ore piccole, la moglie del vicino, tutta spiritata: «Fratello Genbao» gli disse sbracciandosi, «sono qui perché ho sentito dei rumori! I tuoi sono da me. Ci hai messo addosso una tale ansia! Pensa che fortuna: la mia cuginetta si è appena divorziata, proprio oggi è venuta qui a trovarmi, e come ha saputo che te ne vai in galera al posto del capo del borgo, e che per giunta non sei ancora sposato, ha subito accettato! Ti abbiamo aspettato a casa tua fino a mezzanotte, ma siccome non tornavi ce ne siamo andate e finalmente sei arrivato. Tuo padre e tua madre hanno riaccompagnato mia cugina a casa mia; hanno parlato un sacco! Dai» lo incalzò, «spicciati, vieni a casa mia a vedere mia cugina, è un tale fiore che pare proprio una ragazza ancora nubile. Su Genbao, andiamo, com’è che non ti spicci? Cosa fai ancora lì impalato?»
La vicina era nativa del borgo ed era una bella donna, sottile e aggraziata; si era abbassata a venire in sposa nel villaggio, che dal borgo distava una ventina chilometri, solo perché il marito era capace a fare affari. Era una che aveva studiato, sapeva parlare, e sapeva portar bene anche abiti non belli. Sapeva di avere doti che la gente a Wujiapo non possedeva, e perciò, quando si rivolgeva agli altri, non lo faceva per discutere, ma come un’insegnante che ammaestrava i suoi scolari. La luna, nel frattempo, si era spostata sui crinali, e la corticina era avvolta in un velo cinerino. Così Genbao non riuscì a vederne il viso; scorse solo le sue mani che in quel fiume di parole si agitavano come fronde di un pioppo spazzate dal vento. Fino a che, nell’oscurità, lei non smise di parlare e lo prese per mano per trascinarlo a casa propria, e Genbao sentì le sue dita calde e affusolate avvolgergli le proprie, soffici come cotone. E sentì altresì, come una ventata estiva di frumento nel gelo invernale, l’odore di donna dei suoi capelli, e subito una febbre gli corse galoppandogli alla testa. Sentendosi rintronare, cercò con forza di liberarsi dalla stretta; pensò di dirle che non poteva andarci più, in galera, che era stato Zhuzi a pescare la pallotta, ma tutto ciò che gli riuscì di dire invece fu: «Cognata, lasciami andare».
«Eh?» saltò su la vicina, «mia cugina non ti garba?»
«Cognata, è in galera che sto andando, non è mica una bella cosa».
«Sì» fece la vicina, «ma tu ci vai al posto del capo del borgo».
«E non è detto che ci resti dieci o venti giorni. Il tizio è morto, può essere che diventino anche sei mesi, un anno».
Ma lei, nella notte fioca, fece risuonare una risata: «Tu le hai viste quelle tre paia di scarpe dell’esercito? È andata a comprartele mia cugina, stanotte stessa, nello spaccio di un altro villaggio. Ha detto che i carcerati devono andare a lavorare nelle fabbriche dei mattoni e che quindi le scarpe le consumano parecchio. La rieducazione attraverso il lavoro dura almeno un anno».
«E se ne durasse due, o tre?» insisté lui.
«Mia cugina è una che si lega» ribatté lei. È stato perché il marito andava sempre in città a frequentar donnette, è stato perché lui non era fedele che lei ha divorziato. Mia cugina non ha paura che il suo uomo vada in galera, semmai ha paura che vada a spendere i soldi in un albergo».
«Cognata, se è così allora dimmi, cosa le dico quando la vedo a casa tua?»
«Prendi un paio di fette dello youmo che ti ha appena fatto mamma e dille: era tanto tardi, e così sei andato a portarle uno spuntino».
La vicina finalmente se ne andò, saltellante come una capretta. Genbao, nella corticina, la vide prima uscire e poi voltarsi nuovamente per ingiungere: «Spicciati, dai, se aspetti un altro po’ finisce che fa giorno». Infine si dileguò nella notte.
Genbao però non andò in cucina a prendere lo youmo. Rimase invece un poco lì sul posto, meditabondo, e infine se ne uscì in strada seguendo i passi di lei. Ma invece di andare a casa sua, svoltò a destra e prese verso ovest, dove abitava Zhuzi. Anche Zhuzi viveva in una casa di mattoni; perfino il portone, a casa sua, era sovrastato da un gran menlou di tegole: si vedeva subito che la sua era una famiglia benestante. Eppure sua moglie era scappata con un altro, uno da fuori, che faceva il falegname, e che aveva per fratello il segretario del partito al suo villaggio.
Quando Genbao arrivò da Zhuzi, i cani randagi si misero ad abbaiare spaventati dal rumore, ma appena lui si fermò di fronte al portone si acquietarono di nuovo. Da una fessura vide che nella stanza principale la luce era ancora accesa. E voleva ben vedere che Zhuzi dormisse! Il giorno seguente, subito dopo la colazione, doveva andare, con il beccaio, ad incontrare il capo del borgo, poi doveva prendere la corriera per andare al commissariato del distretto, dove sarebbe stato messo in cella in attesa che arrivasse la sentenza, per cui per tanti giorni non sarebbe potuto tornare a casa. Ovvio che le valigie per andare in galera le doveva fare quella notte stessa!
Genbao bussò più volte, piano piano.
Il portone in legno d’olmo sembrava duro come pietra. Ma i colpi, nel buio della notte ormai senza luna, ricaddero indietro sulla strada, secchi come sassolini piovuti dalla gronda. Da dentro non si udì risposta alcuna. A far da eco, solamente l’abbaiare dei cani nel villaggio.
Genbao bussò di nuovo con veemenza.
«Chi è?» rispose finalmente Zhuzi.
«Sono io, fratello…»
«Ah, Genbao! E che vuoi?»
«Apri, per favore, devo parlarti».
Zhuzi allora uscì nella corte, accese la luce di fianco al portone, e spalancò i battenti.
Genbao si buttò subito a terra ginocchioni.
Zhuzi fece un balzo indietro: «Genbao, ma che significa? Che intendi fare?»
«Fratello» lo implorò, «lascia andare me in galera! Tu una famiglia bene o male l’hai avuta, e che cosa vuol dire essere uomo già lo sai; io a momenti ho trent’anni e ancora non lo so! Lascia andare me in galera: sicuramente il capo del borgo vorrà sapere che guai ho in casa e io, la prima cosa che dirò, sarà di far tornare a casa tua moglie e tuo figlio, va bene?»
Zhuzi lo fissò muto sotto la luce della lampadina.
Genbao si allungò con la fronte a terra e continuò: «Fratello, facciamo che la mia è una supplica, va bene?»
«Se io lascio andare te» rispose Zhuzi, «tu davvero parlerai per me al capo del borgo?»
«Sputami pure in faccia se non parlo prima di tutto dei tuoi problemi e non gli chiedo di far tornare a casa tua moglie e tuo figlio».
«E allora alzati» disse l’altro.
Genbao sbatté sonoramente la testa per terra per tre volte e solo dopo aver finito si rialzò.

La notte corse via rapidamente.
Il giorno dopo il sole primaverile, levatosi mattiniero, si spandeva in ogni dove, indorando i campi, i crinali, gli alberi e i villaggi. Tutti a Wujiapo, nel ridestarsi in quel mattino di primavera, seppero che per la famiglia di Genbao quel dì era festa. Genbao se ne andava in galera al posto del capo del borgo. Il fagotto era bell’e pronto, il saccone era già stato arrotolato, e anche lo youmo bianco con la cipolletta se ne stava al calduccio dentro al tascapane.
Genbao sarebbe stato il benefattore del capo del borgo.
Fatta colazione con youmo, salamoie e zuppa di patata dolce, Genbao uscì fuori in strada, le borse sottobraccio, e vi trovò un sacco di gente del villaggio. C’erano Li Qing, lo sciancato, Zhuzi e la moglie del vicino; c’era anche la cugina di quella. Il matrimonio era stato fissato la notte stessa e lei gli aveva detto che, siccome lui di sicuro in dieci-quindici giorni non sarebbe tornato, lei lo avrebbe comunque aspettato, anche uno o due anni. Poi era venuta prestissimo a salutarlo. Quasi nessuno dei compaesani sapeva ancora che era sua moglie, e la credevano soltanto una spettatrice venuta a curiosare insieme alla cugina. Dietro Genbao veniva il padre. Portava saccone e coperte col viso in festa e pieno di orgoglio come se il figlio si avviasse ad un’impresa. Avendo lasciata a casa la pipa, fumava per l’occasione una sigaretta confezionata, sebbene, anziché aspirarla per davvero, si limitasse a soffiare delle volute di fumo azzurrino. La madre invece reggeva il tascapane, e non appena vide in strada la cugina della vicina le corse incontro giubilante. Genbao non sentì cosa si stessero dicendo; vide solamente che, dopo essersi scambiata qualche cenno con la madre, la cugina si era fatta passare il tascapane e aveva preso quell’altra sottobraccio come se stesse aiutando un vecchio a salire un ponte. In mezzo a quel corteo, pareva un fiore in boccio su una collina d’estate. Anche lei era del borgo: quand’era piccola abitava proprio a ridosso del vecchio municipio, nella cui corte perciò soleva spesso correre a giocare; in più, anche lei come la cugina era una donna che aveva visto il mondo, cosicché il suo modo di vestire, di parlare e di condursi erano lontani anni luce da quelli di Wujiapo. Perciò, quando prese il braccio della madre, la gente mangiò subito la foglia e si riempì di ancor più stupita ammirazione. Sulla soglia inizialmente c’erano forse una dozzina di persone; ma quando Genbao uscì con la famiglia, e questi ultimi si fermarono a scambiare due chiacchiere, divennero un assembramento. Alcuni erano diretti alla campagna, ma avendo sentito che Genbao sarebbe andato a salvare il capo del borgo si erano precipitati lì per festeggiarlo e accompagnarlo. «Fratello» dicevano, «il futuro ti aspetta, ma tu non ti dimenticare mai di noi!» E lui, staccati per un attimo gli occhi dal suo bel fiore, ridendo rispondeva: «Macché futuro, sto andando in galera al posto di un altro!» E quelli tornavano a domandare: «In galera? E al posto di chi? Al posto del capo del borgo! Tu sei il salvatore del capo del borgo, credi che i tuoi fratelli non sappiano quale futuro ti attende?»
Al che Genbao rideva, in silenzio.
Così s’incamminò, pian piano, fra le ali della folla che lo spingeva. Gente davanti, gente di dietro; passi e risate, che frusciavano come foglie nel vento d’autunno. Qualcuno si accostò al padre, che camminava un po’ più indietro, per farsi dare il suo bagaglio; quello disse di no, no, che non serviva, ma alla fine lo cedette. Allora cavò di tasca un pacchetto di sigarette, lo scartò e offrì a ognuno da fumare. Se qualcuno non voleva, gli ficcava la sigaretta in bocca. Genbao avrebbe tanto voluto avvicinarsi a Zhuzi: sia lui che Li Qing e lo sciancato si accalcavano benevoli lungo il ciglio della strada, come se la storia delle pallotte, la notte prima, non fosse mai neanche esistita. La gente però pigiava, faceva a gara per parlare con lui, così lui poté fargli solo qualche cenno, con le mani e col capo, per segnalargli il suo rammarico e la sua riconoscenza. Erano anni che nel villaggio non si vedeva una festa d’addio così frizzante; mai c’era stata una simile grandigia, nemmeno quelle rare volte che capitava che un ragazzo fosse arruolato nell’esercito. E invece oggi il destinatario di tale grandeggiare era Genbao. Compiaciuto, egli sfilò fino all’entrata del villaggio, poi si fermò sulla spianata e infine, levando in alto il braccio, fece più volte segno a tutti di tornare indietro, dicendo: «Basta, sto andando in galera, non parto mica soldato!» Ciononostante, in barba alle sue precisazioni, la gente di tornarsene indietro non ne voleva proprio saperne.
Perciò tutti continuarono a salire, stringendosi intorno a lui, diretti verso il passo dov’era la casa del beccaio.
Il quale era già lì, illuminato dai raggi del sole, che si sbracciava verso quelli che venivano. Genbao a quel segnale affrettò il passo. Ma più lui accelerava, più il beccaio si sbracciava, urlando addirittura con le mani messe a coppa. Data la distanza, non si riusciva a sentire che dicesse, e tutti credevano volesse dire a Genbao di accelerare.
Così Genbao, non volendo far aspettare il beccaio troppo a lungo, si mise a correre con le borse in mano. Ma non appena staccò il corteo per affrettarsi lungo la salita, dal passo prese a scendere di corsa il ragazzotto della notte prima. Questi, fattosi un po’ più vicino, si fermò sopra una pietra sul ciglio della strada per urlare a squarciagola: «Liu Genbao, zio Li dice che non devi più venire, il capo del borgo stamattina ha mandato a dire che non serve più che qualcuno s’incrimini per lui!»
Genbao allentò il passo, poi si fermò, si piantò in mezzo alla strada come un palo della luce, e guardò il ragazzotto. «Eh?» urlò, «che stai dicendo?»
«Non serve che tu vada» gridò di nuovo l’altro, «i genitori del morto sono stati comprensivi, non hanno dato la colpa al capo del borgo e non lo hanno neanche denunciato; non vogliono nemmeno essere risarciti, chiedono solo che lui prometta di adottare il fratello più piccolo del morto e finita lì».
Stavolta Genbao capì tutto quanto. Sentì che le caviglie stavano per cedere, perciò cercò di spingere tutta la forza sul collo del piede, per evitare di cadere a terra paralizzato. Poi portò lo sguardo sulle cime dei monti e vide il beccaio, sulla strada in cima al passo, che diceva a dei tizi di caricare la carne fresca su un veicolo. Di spalle, si sbracciavano con spalle larghe come porte, danzanti, forti da non dire.
La gente che lo seguiva – parlavano, ridevano – si avvicinava, come se stesse sospingendo un carretto sulla strada. Genbao, in quel momento, sperò tantissimo che il beccaio, o il ragazzo che era appena sceso di corsa, andassero da loro a rispiegargli, per filo e per segno, quello che era stato appena detto a lui: intanto che lui se ne andava lento oltre al passo.
Il sole si fece ancora più alto, di un rosso sempre più brillante.

Traduzione di Marco Fumian

Immagine: illustrazione del racconto Setola bianca setola nera

Yan Lianke, Setola bianca setola nera PDF

Yan Lianke (1958) è uno dei massimi scrittori cinesi contemporanei. Fra le sue numerose opere, sono state tradotte in italiano Servire il popolo (Torino: Einaudi 2006), Il sogno del villaggio dei Ding (Roma: Nottetempo 2011), Pensando a mio padre (Roma: Nottetempo 2013), Il podestà Liu e altri racconti (Roma: Atmosphere 2017) e I quatto libri (Roma, Nottetempo 2018).

References
1 Si ringrazia l’editore Atmosphere per avere permesso la ripubblicazione su Sinosfere di questo racconto, già parte della raccolta Il podestà Liu e altri racconti (Roma: Atmosphere, 2017) tradotta e curata da Marco Fumian. Il racconto, il cui titolo originale è Hei zhu mao, bai zhu mao 黑猪毛,白猪毛, è stato originariamente pubblicato in Cina nel 2002.
2 La Cina a livello amministrativo è suddivisa, in ordine decrescente, in “province” (o municipalità autonome, come quelle delle città di Pechino e Shanghai), “prefetture” (a cui fa capo una “città”), “distretti” e, al di sotto di questi ultimi, in “borghi” o “comuni”, i primi contraddistinti dalla presenza di un piccolo centro urbano, i secondi invece prevalentemente rurali, e quindi meno densamente popolati. Al di sotto di borghi e comuni, e da essi direttamente amministrati, ci sono infine i “villaggi”, che costituiscono la più piccola unità amministrativa cinese e sono caratterizzati dalla loro natura agricola. Ogni unità amministrativa cinese al di sopra del livello di villaggio è governata sia da un “capo”, che rappresenta il potere dello stato, sia da un “segretario del partito”, che rappresenta il potere del Partito Comunista.
3 Si è scelto di usare l’espressione “case di fango” per tradurre il termine cinese caofang (dove cao, il determinante, significa “erba”, “paglia”, e fang, il determinato, significa “casa”, “edificio”), termine che designa le abitazioni costruite con mattoni di terra secca mista a paglia, e con il tetto sovente ricoperto di paglia; mentre si è tradotto con l’espressione “case di mattoni” il termine wafang (in cui wa significa tegola), che designa invece le abitazioni con le pareti di laterizio e il tetto rivestito di tegole. Se fino agli anni Ottanta era piuttosto comune, nelle campagne povere della Cina settentrionale, abitare nelle cosiddette case di fango, con la crescita economica innescata con il processo di Riforma e Apertura i contadini hanno cominciato a costruire, in numero sempre maggiore, abitazioni di mattoni, che diventavano lo status symbol della loro prosperità (o del loro fallimento se non riuscivano, come nel caso della famiglia di Genbao, a costruirle).
4 Focaccia piatta di farina, fritta nell’olio.