Le dottrine di governo elaborate durante la dinastia Zhou (1045-256 a.C.) sono state la costante fonte d’ispirazione e di legittimazione politica a cui hanno attinto re, imperatori, ministri e amministratori pubblici per oltre due millenni. Non deve quindi sorprendere se quei principi siano oggi tornati in auge. Venuta meno la motivazione ideologica che ha caratterizzato il periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare alla morte di Mao Zedong, e attenuatisi gli effetti positivi derivati dall’azione riformista di stampo liberale e di apertura all’Occidente avviata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta, il Partito Comunista e il governo, che del partito è l’espressione istituzionale, si rivolgono ora agli ideali e ai valori che sono stati alla base del pensiero politico tradizionale per trarre la propria legittimazione. Tale scelta è funzionale non solo alla conservazione del potere, che negli ultimi anni ha mostrato segni di fragilità, ma anche alla sopravvivenza stessa del partito, alla stabilità della sua classe dirigente e delle istituzioni governative, sia a livello periferico che centrale.
In questi decenni di forte sviluppo economico la qualità della vita della popolazione cinese è migliorata notevolmente, anche se in modo diseguale, favorendo alcune aree del paese a discapito di altre e determinando la formazione di una classe agiata paragonabile a quella dei paesi più avanzati e di una classe media di oltre 400 milioni di individui. È più difficile quantificare il nuovo proletariato urbano, certamente costituito da svariate centinaia di milioni di soggetti, per lo più immigrati interni. Si è così creata una situazione fortemente sbilanciata, caratterizzata da squilibri marcati e ingiustizie sociali, motivo di ricorrenti tensioni e conflitti, spesso sfociati in proteste e sommosse sia di matrice sociale e ideologica che religiosa, e aggravata da una corruzione dilagante, presente a ogni livello dell’apparato statale.Il desiderio di un’affermazione personale, prevalentemente economica, ha preso il posto delle motivazioni ideologiche che per decenni erano state la base del consenso popolare, rivelandosi poi insufficienti a promuovere lo sviluppo del paese. La distanza sempre più profonda che separa il partito e le istituzioni da quella fascia di popolazione che meno ha goduto dei benefici del progresso era già evidente durante il mandato presidenziale di Hu Jintao. I tentativi di porvi rimedio si erano però dimostrati inefficaci prima che la situazione mutasse radicalmente dopo l’avvento al potere di Xi Jinping.
La nuova era
Archiviati definitivamente il secolo dell’umiliazione e la politica denghiana del basso profilo in ambito internazionale, Xi Jinping, ritenendo ormai maturi i tempi per affermare il ruolo di potenza globale della Cina, ha avviato fin dalla sua nomina a segretario del partito (15 novembre 2012) e presidente della Repubblica (14 marzo 2013) un articolato programma di riforme nei settori industriale, economico, commerciale, militare, scientifico e culturale, con l’obiettivo di rinnovare radicalmente le istituzioni, il sistema produttivo e la società. I progetti della Belt and Road Initiative e del Made in China 2025 danno la misura delle aspirazioni e delle ambizioni personali e istituzionali dell’attuale classe dirigente: sono iniziative volte a promuovere un “rinascimento” della nazione, che ha come orizzonte politico la ricollocazione della Cina al “centro” (zhong 中) del mondo “sotto il cielo” (tianxia 天下), rifacendosi ai tempi, precedenti alla Grande divergenza, durante i quali l’impero cinese rappresentava l’area più ricca ed evoluta del pianeta. Il “sogno” promosso da Xi Jinping si realizzerà compiutamente quando da “cinese” diverrà finalmente “globale”, senza rinunciare alla convinzione che non saranno i principi occidentali a sostenere la Cina del futuro, ma i valori radicati nella propria cultura, nelle proprie concezioni filosofiche, etiche ed estetiche.Da questi intenti discende la volontà di riappropriarsi dei cosiddetti “geni fondamentali della cultura cinese” (jiben de wenhua jiyin 基本的文化基因), per costruire una nuova moralità che sappia coniugare i principi socialisti e le aperture di stampo liberista con lo spirito umanistico proprio del confucianesimo, per parlare il linguaggio dell’uomo e non solo dell’economia, valorizzando il talento e il merito, debellando la corruzione dilagante e ridimensionando lo strapotere delle caste. È dunque ai valori etici e alle dottrine politiche che per oltre due millenni hanno costituito il fondamento della pratica di governo in Cina che Xi Jinping e la nuova classe dirigente guardano per legittimare il proprio diritto a guidare il paese verso una delle mete più ambiziose della sua storia.
Innanzitutto si è reso necessario ripristinare la fiducia, crollata ai minimi storici, nel partito e nelle sue capacità di avviare con successo la nuova fase a cui tutti i cinesi, compresi coloro che risiedono all’estero, sono chiamati a partecipare. Le prime misure messe in campo hanno avuto come obiettivo la lotta alla corruzione e alla malversazione: è stata pianificata una campagna di moralizzazione di vaste proporzioni che non ha precedenti e che non ha risparmiato nessun livello dell’apparato burocratico e governativo, nemmeno i vertici del potere politico e militare, “principini” inclusi. Contemporaneamente Xi ha impresso una notevole accelerazione al processo, avviato con cautela dai suoi predecessori, di rivisitazione e riappropriazione del patrimonio culturale tramandato sin dalla più remota antichità, in particolare degli ideali e dei valori etici confuciani, per ridefinire l’identità cinese nel nuovo millennio, mettendo al bando i cosiddetti “valori occidentali” e alimentando il sentimento patriottico e nazionalista.
È in quest’ottica che i principi tradizionalmente invocati per legittimare il potere politico hanno assunto un ruolo di primo piano.
Il mandato a governare
Fin dall’antichità i cinesi hanno considerato il Cielo, massima divinità, la fonte primaria di legittimazione politica. Senza il consenso divino nessuna casata, nessuna dinastia, nemmeno la più potente, sarebbe potuta permanere a lungo al governo del paese. La dottrina del mandato a governare conferito dal Cielo (Tianming 天命) ha sancito per millenni non solo il diritto a regnare, ma anche il diritto a ribellarsi. Sulla base di questo principio sono stati giustificati i cambiamenti dinastici che sarebbero sempre avvenuti deponendo sovrani inetti, immorali e impopolari. Le rivolte che avevano portato all’ascesa di una nuova dinastia venivano legittimate ritenendo che il Cielo avesse la prerogativa di individuare la persona più adatta a ricevere il mandato e che il popolo avesse la facoltà di ratificare la scelta e portarla a compimento, verificando poi se il prescelto si fosse mantenuto degno dell’investitura decisa dal Cielo. Se il nuovo sovrano si fosse rivelato inadeguato, il Cielo e il popolo sarebbero intervenuti, manifestando con modalità diverse il proprio disappunto: il primo inviando segnali premonitori, che da eventi negativi di modesta entità potevano diventare calamità naturali devastanti, e promuovendo campagne militari di rettificazione (zheng 征) per correggere ogni anomalia (zheng 正) dell’ordine costituito e ripristinare la legalità perduta; il secondo insorgendo e imponendo con la forza delle armi un avvicendamento al potere. Una volta insediatosi sul trono, il nuovo Figlio del Cielo (Tianzi 天子) doveva assumersi la responsabilità di selezionare, in base al merito e non al censo, ministri e funzionari competenti e retti. In questo modo si sarebbe creata una classe di amministratori efficienti, affidabili e credibili agli occhi della gente comune.
Nella storia cinese è successo più volte che il sovrano e soprattutto i ministri e i funzionari fossero di estrazione popolare e non aristocratica. Ciò che veramente contava per i sudditi era che gli uomini chiamati a responsabilità di governo possedessero le qualità morali, la competenza e le doti necessarie per svolgere il compito affidato loro, comportandosi sempre in modo retto e irreprensibile, e condividendo con tutti, per quanto possibile, benessere e privilegi.
Non fu Confucio (551-479 a.C.) a formulare per primo la dottrina del mandato celeste, ma furono di certo lui e il suo principale seguace e interprete, Mencio (390-305 a.C.), a porre la morale a fondamento del potere legittimo e a elaborare le linee guida da seguire nella pratica del buon governo. Quando nel I secolo a.C. il confucianesimo si affermò come ideologia di stato, l’apparato amministrativo e legislativo subì un profondo processo di confucianizzazione che andò affinandosi nel tempo. I principi e i valori confuciani divennero i cardini del sistema imperiale e dell’intera società, e i due piani – statale e sociale – si fusero indissolubilmente, fin quasi a confondersi: il codice etico confuciano divenne la guida di ogni governo che aveva a sua volta il compito di promuovere e diffondere quel codice nell’intera società.
L’intimo legame tra diritto a governare e condotta etica, sancito fin dai tempi di Confucio e Mencio, avrebbe dovuto orientare il comportamento di imperatori, ministri e funzionari di ogni epoca ed è riconosciuto come principio fondante dell’autorità anche dall’attuale classe dirigente, che ha ben chiaro quanto il consenso popolare sia determinante per la propria sopravvivenza.
Etica e politica
Nel momento in cui si accetta l’idea che la morale, intesa come l’insieme delle virtù, e l’etica, intesa come l’attuazione pratica di quelle virtù, siano parte integrante del potere politico, tanto da divenirne i cardini, si sancisce il principio che la politica è per sua natura etica, e che lo stato, in quanto massima espressione dell’autorità, è la fonte primaria, se non la sola, della moralità. La politica si lega così intimamente all’interesse pubblico, che deve essere fatto prevalere in ogni circostanza sull’interesse privato; l’individualismo e la corruzione sono la manifestazione palese del fallimento di questa concezione. Chi detiene il potere ha la prerogativa di rappresentare la fonte preminente della morale, ecco perché lo stato centralizzato tende ad avere un rapporto ambiguo e conflittuale con le organizzazioni religiose, che propongono i propri modelli etici e che possono assumere un ruolo eversivo, soprattutto nei momenti di maggiori difficoltà economiche, come la storia insegna.
Nel corso dei secoli sono state avanzate diverse teorie sull’arte di governo, ma solo le concezioni elaborate dai confuciani a partire dal periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) riuscirono a imporsi in epoca imperiale e a plasmare, generazione dopo generazione, la società cinese per oltre due millenni, enfatizzando l’amore per il prossimo (ren 仁), l’empatia (shu 恕), il rispetto (jing 敬), in particolare il rispetto filiale (xiao 孝) e la deferenza verso anziani e superiori (ti 悌), la lealtà (zhong 忠), l’affidabilità (xin 信), il senso di ciò che è corretto (zheng 正) e appropriato dal punto di vista etico (yi 義), l’osservanza dei riti e delle convenzioni sociali (li 禮). La pratica delle virtù (xing renyi 行仁義) non è di per sé sufficiente – ammonisce Mencio –, è necessario farne una regola interiore, rendere stabile nel proprio cuore la condotta che si fonda su queste virtù (renyi xing 仁義行). Grazie soprattutto all’interazione positiva di ren 仁, yi 義 e li 禮 l’uomo è in grado di coltivare la propria persona (xiu shen 修身) e creare le condizioni ideali per sviluppare uno stile di vita etico e rispettoso di sé e del prossimo che possa fungere da modello per l’intera società. Ed è soprattutto grazie a xiao 孝 che l’ordine gerarchico viene garantito all’interno della famiglia e nei confronti delle istituzioni.
Morale ed etica assumono così un valore decisamente superiore alla legge, il comportamento dell’individuo poggia sulla consapevolezza della propria dignità che renderebbe intollerabile la riprovazione del prossimo. È il timore della vergogna (chi 恥) – avverte Confucio – e non la paura di leggi e punizioni che induce l’uomo a comportarsi correttamente e a rispettare le regole. Il sentimento della vergogna altro non è che la consapevolezza, inizialmente solo intuitiva, che vi sono azioni contrarie alla morale e umiliazioni inaccettabili per la dignità dell’uomo: secondo Mencio sono proprio i sentimenti della vergogna e dell’indignazione (xiuwu zhi xin 羞惡之心) i germogli della rettitudine (yi zhi duan 義之端). La tensione esistente tra un sistema di governo fondato sull’educazione e la persuasione morale – che potremmo definire “governo della virtù” (dezhi 德治) – e un regime che basa la propria autorità su misure coercitive e punitive volte a reprimere comportamenti ritenuti incompatibili con l’ordine sociale – che potremmo chiamare “governo della legge” (fazhi 法治) – è una costante della storia cinese, ed è un tema di grande attualità ancor oggi. Si tratta di due concezioni del controllo sociale distinte, ma non del tutto alternative.La conformità ai principi morali e alle convenzioni sociali richiede infatti la costante ricerca del punto di equilibrio tra esigenze contrastanti (zhongyong 中庸), percorrendo la sola via che porta alla realizzazione dell’armonia sociale (he 和), nel pieno rispetto delle diversità (he er bu tong 和而不同).
Indicando come fonte di legalità e di legittimazione i grandi ideali del passato trasmessi nel corso dei secoli da saggi illuminati si è inteso oggi ridar vita a un processo di moralizzazione e umanizzazione della vita politica, economica e sociale che era divenuto drammaticamente inefficace negli ultimi decenni.I valori confuciani, oggi nuovamente presenti nella vita quotidiana dei cinesi, sono oggetto di campagne di sensibilizzazione di massa, condotte con qualsiasi mezzo pur di raggiungere ogni luogo dell’immenso paese e ogni strato della popolazione, ispiranomisure legislative mirate (si pensi, ad esempio, alla legge sul comportamento filiale, entrata in vigore il 1° luglio 2013) e improntano i piani di studio, rientrando a pieno titolo nei programmi delle scuole private e pubbliche di ogni ordine e grado. Chiamati a rappresentare la vera forza propulsiva della civiltà cinese, essi promettono un futuro migliore, consentendo a un presente incerto e problematico di ritrovare una connessione positiva con la millenaria storia del paese. Allo stesso tempo garantiscono al partito un controllo capillare sulla vita delle persone. Il sistema di credito sociale, che entro il 2020 valuterà il comportamento dell’intera popolazione e assegnerà a ogni individuo premi e sanzioni a seconda di un punteggio attribuito in base alla sua condotta etica (secondo parametri stabiliti dal partito), viene sperimentato dal 2012 senza troppe resistenze perché è, tutto sommato, congruo con la visione tradizionale della relazione sovrano-suddito.
L’arte di governo
Secondo Mencio coloro che sono investiti di responsabilità di governo hanno il dovere di agire in modo eticamente appropriato (renyi 仁義), sacrificando il proprio tornaconto nell’esclusivo interesse del popolo (li yu min 利於民 o li min 利民), in un’ottica di condivisione dei propri privilegi (yu min tong 與民同) e di rispetto dell’altrui sofferenza (you bu ren ren zhi xin 有不忍人之心), dando vita a governi coerenti con questi nobili sentimenti (you bu ren ben zhi zheng 有不忍人之政). Chi governa secondo i retti principi considera l’uomo e il popolo il fondamento dell’azione politica (yi ren/min wei ben 以人/民為本), si prodiga per proteggere con amore il popolo (bao min 保民) e creare le condizioni per sviluppare e diffondere quel benessere materiale (zhi min zhi chan 制民之產) che consentirà a chiunque di trovare il tempo e le risorse necessarie per dedicarsi alla cura della propria educazione e della propria persona.
Il concetto di “popolo al primo posto” (min wei gui 民為貴) non prevede che a esso sia conferito un ruolo diretto nel processo decisionale e gestionale della cosa pubblica, si basa piuttosto sull’assunto che, trattandolo con paternalistico rispetto, al popolo non si debba riconoscere alcuno spazio d’intervento politico che è, e deve rimanere, di esclusiva competenza di chi è stato scelto in virtù delle sue doti morali e capacità. È assolutamente necessario evitare di confondere ruoli e mansioni, cedere su questo punto non porterebbe alcun giovamento allo stato. Solo chi è al governo ha il compito di creare pace e ordine nel mondo (ping zhi tianxia 平治天下), attuando politiche improntate su principi di umanità (renzheng 仁政) volte alla realizzazione del bene comune.
Seguendo questi principi il sovrano diverrà padre e madre del popolo (min zhi fumu 民之父母), pastore di uomini del mondo (tianxia zhi renmu 天下之人牧), e saprà conquistare il cuore della gente (de min xin 得民心). Ministri e funzionari rivestono un ruolo importante, essendo il trait d’union tra il sovrano illuminato e i suoi sudditi: è indispensabile che anche i ministri e i funzionari agiscano come padri e madri del popolo (min zhi fumuguan 民之父母官), nel rispetto dei principi di umanità e giustizia; se così non fosse ci sarebbe motivo per mettere in discussione la figura stessa del sovrano.
Questi concetti, ripresi e rielaborati, li troviamo riproposti in alcuni documenti ufficiali del Partito Comunista e nei discorsi di Xi Jinping.
Consenso popolare e legittimazione politica
Nel corso della storia cinese si contano a migliaia i disastri naturali che hanno creato carestie e devastazioni. L’intervento dello stato in caso di necessità è essenziale perché non venga meno il consenso popolare e per i contadini, che temono eventi sui quali non possono esercitare alcun controllo, è più importante contenere i danni derivanti da una carestia o da altre calamità che massimizzare i profitti: un raccolto perduto potrebbe significare anche la morte per inedia.
Il popolo ritiene il governo responsabile, in ultima istanza, del suo benessere materiale e spirituale e per il governo mettere a profitto con competenza le risorse disponibili rappresenta un imperativo morale. Il vincolo che lega le parti è prevalentemente di natura etica e rappresenta il paradigma su cui si basa tanto la famiglia quanto la società: protezione amorevole in cambio di sottomissione leale e finché il popolo sarà convinto dell’onestà dei potenti, questi ultimi saranno legittimati a governare.
Va da sé che il consenso si ottiene in prima istanza a livello locale. Cattiva gestione, atti di sopraffazione, malversazione o corruzione condotti a livello di quartiere, villaggio e città sono immediatamente percepiti e minano la stima e la fiducia nei confronti dell’autorità costituita e di chi la rappresenta. Maggiore è la distanza tra governo periferico e governo centrale, minore è il rischio che il malcontento suscitato dagli amministratori locali comporti anche una perdita di credibilità dell’autorità centrale. Non è ammesso però che l’inefficienza superi un certo limite, oltre il quale è legittimo l’intervento dell’autorità di controllo autorizzata a subentrare per rilevare e correggere errori e punire i comportamenti immorali o inadeguati. L’immensa estensione del territorio cinese, sia in epoca imperiale che in epoca repubblicana, ha reso problematico il rapporto tra centro e periferia, ma è evidente che l’alto livello di decentralizzazione del potere nella Cina attuale è un elemento di grande rilevanza per la ricerca e la conservazione del consenso.
Assicurarsi il consenso del popolo è la priorità del sovrano illuminato, ed è quindi naturale che sia uno dei fondamenti della sua politica. Solo ottemperando a questa necessità egli sarà modello virtuoso per tutti e saprà cogliere le condizioni favorevoli per intraprendere ogni azione utile a unificare il mondo intero (yi tianxia 一天下), facendo sì che il popolo si senta di rappresentare una sola famiglia (tianxia yi jia 天下一家). Non perseguire il benessere della comunità nell’azione di governo (bu shanzheng 不善政), non conquistare il cuore della gente ma perderlo (shi min xin 失民心) significa decretare la fine del proprio mandato.
Questi principi, che costituiscono il nucleo centrale del pensiero politico tradizionale e rappresentano il comun denominatore di ogni forma di governo nel corso dei secoli, sonoalla base della formazione intellettuale e spirituale della persona esemplare per virtù e nobiltà d’animo (junzi 君子), del sovrano illuminato (mingwang 明王)e del governo che s’ispiri a principi di umanità (renzheng 仁政). Tale visione idealistica ha condizionato il pensiero cinese in ogni epoca, mutuando i concettidai classici della tradizioneche oggi ritroviamo riproposti, anche verbatim, dai discorsi di Xi Jinping e dai documenti ufficiali del partito comunista.
Conclusione
Da questa esposizione appare evidente quanto importante sia stato, nel processo di legittimazione del potere politico nella Cina tradizionale, il ruolo svolto dal sistema di valori etici confuciani e quanto attuale e valido risulti ancor oggi. Nella storia cinese, non sempre i principi di buon governo enunciati a livello teorico hanno trovato applicazione e corrispondenza nella pratica di governo, e questo vale anche per la Cina di Xi Jinping. È comunque innegabile che la concezione di responsabilità di coloro che si trovano nella posizione di governo è un tratto comune della Cina di ieri e di oggi, una sorta di filo ideale che collega la Cina imperiale alla Cina comunista.
Immagine: Propaganda anti-corruzione in un francobollo
Scarpari, tradizione e legittimazione politica nella Cina di Xi Jinping PDF
Maurizio Scarpari ha insegnato lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Le sue ricerche riguardano principalmente la Cina pre-imperiale, i settori privilegiati sono il filologico-linguistico classico, l’archeologico e quello relativo alla storia del pensiero filosofico antico e alla sua incidenza sul pensiero politico attuale. È autore di oltre un centinaio di libri e articoli scientifici. Tra i suoi ultimi libri si segnalano Il confucianesimo. I fondamenti e i testi (Torino: Einaudi 2010), Mencio e l’arte di governo (Venezia: Marsilio 2013) e Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Bologna: Mulino 2015). Per la collana Grandi Opere Einaudi ha curato la serie in più volumi La Cina (2009-2013). Insieme a L. Lanciotti ha curato la mostra di arte e archeologia cinese Cina. Nascita di un Impero (Roma, Scuderie del Quirinale, 2006-2007), insieme a S. Rastelli ha curato la mostra Il Celeste Impero. Dall’Esercito di Terracotta alla Via della Seta (Torino, Museo di Antichità, 2008), insieme a S. De Caro ha curato il catalogo della mostra I due imperi. L’aquila e il dragone. Ha inoltre fatto parte del Comitato Scientifico delle mostre 7000 anni di Cina. Arte e archeologia cinese dal Neolitico alla Dinastia degli Han (Venezia, Palazzo Ducale, 1983), Cina a Venezia. Dalla Dinastia Han a Marco Polo (Venezia, Palazzo Ducale, 1986), Cina 220 A.C. I guerrieri di Xi’an (Roma, Palazzo Venezia, 1994), Cina. Alla corte degli Imperatori. Capolavori mai visti dalla tradizione Han all’eleganza Tang (25-907) (Firenze, Palazzo Strozzi, 2008), I due imperi. L’aquila e il dragone (Milano, Palazzo Reale, 2010; Roma, Curia Iulia e Palazzo Venezia, 2010-2011).