Quando abbiamo coinvolto i collaboratori di questo nuovo numero di Sinosfere dedicato al potere, come per i due precedenti, non abbiamo dato loro né indicazioni né restrizioni, lasciando che fossero i collaboratori stessi, secondo i loro interessi e la loro sensibilità, a interpretare la tematica proposta. Gli interventi che ne sono usciti, tuttavia, sono andati quasi tutti a concentrarsi, abbastanza naturalmente, sull’indagine dei poteri dello stato, osservando primariamente il peculiare funzionamento della politica cinese e delle sue istituzioni, i costrutti ideologici che ne legittimano l’autorità, le pratiche – formali o informali –  che regolano il rapporto tra stato e società, o che costruiscono élites, gerarchie o sudditanze psicologiche degli individui nei confronti delle autorità. Segno, indubbiamente, che è qui, in buona misura, che tende spontaneamente ad appuntarsi il nostro sguardo sulla Cina, il nostro interesse per le sue dinamiche sociali e disposizioni culturali. È dunque da tale indagine che parte il fil rouge che attraversa questa nuova “costellazione” di Sinosfere, che parlando di argomenti diversi da diverse prospettive sopra un unico tema, mira, come nei numeri precedenti, a tratteggiare un insieme di traiettorie interpretative che intersecandosi fra loro si riecheggiano in più punti. Come da programma, gli studi presentati hanno messo in primo piano l’analisi dei processi storici con cui particolari concezioni del potere, e le pratiche che da esse si dipartono, si formano e si trasformano nell’arco temporale, evidenziando soprattutto le continuità nelle discontinuità, e le discontinuità nella continuità. Molti interventi, in particolare, hanno prestato attenzione alla sfera del discorso, decifrando, cioè, quelle particolari formazioni concettuali con cui il potere definisce la realtà, producendo ordini interiorizzati che improntano i valori e orientano i comportamenti sociali dell’individuo.
È da questi interventi, perciò, che parte la nostra carrellata, cominciando con un saggio di Maurizio Scarpari che esamina la “rivisitazione e riappropriazione del patrimonio culturale” cinese tradizionale, da parte dell’attuale leadership politica, al fine di favorire la legittimazione del potere politico in un’epoca di grandi incertezze e nello stesso tempo grandi ambizioni. Focalizzandosi sul riutilizzo dei valori del “buon governo” confuciano – che tanta parte hanno avuto nel cementare l’aspirazione all’unità statale nel mondo cinese tradizionale così come in quello moderno – Scarpari sottolinea come l’attuale ricorso a tali valori miri a produrre una moralizzazione della politica e della vita sociale, in primo luogo responsabilizzando i funzionari dello stato/partito portandoli a mettere al primo posto il bene del paese e dei cittadini. Un progetto di cui Scarpari mette in luce l’intrinseca ambivalenza: se da un lato, infatti, egli riconosce una genuina tensione verso il risanamento dell’etica governativa, nello stesso tempo mostra come, mirando fra le varie cose a far sì che i funzionari del partito si comportino come dei “padri e madri del popolo” di confuciana memoria, esso abbia come scopo cruciale la conquista di un filiale consenso, la cui contropartita sarebbe la conservazione del potere assoluto da parte dell’élite politica, legittimata ad avere uno status superiore appunto proprio in base alle proprie qualità morali e meriti politici.
Al saggio di Maurizio Scarpari risponde idealmente il contributo di Beatrice Gallelli, che mette in luce, viceversa, soprattutto le attuali strumentalizzazioni ideologiche di un altro importante discorso, stavolta non tradizionale ma moderno, funzionale all’egemonia del partito: quello sul “popolo”. Un discorso che, com’è noto, dopo avere consacrato la rivoluzione maoista – compiuta secondo la narrativa ufficiale dal popolo grazie alla guida del partito, che in virtù di tale merito avrebbe per sempre arrogato per sé il titolo di unico rappresentante degli interessi popolari – è sempre stato un elemento costitutivo del discorso politico cinese, ma oggi viene ancor più riportato in auge dal “populista” Xi Jinping. Oggi, tuttavia, in una società ormai ampiamente differenziata e stratificata, tale discorso serve più che altro a riaffermare l’unità e l’unicità di un’identità nazionale che oblitera differenze e conflitti sociali, costruendo il popolo come un agente storico indiviso e affratellato che avrebbe dato vita, attraverso mille sforzi e mille sacrifici collettivi, ai grandi successi della Cina del presente. Convalidando, perciò, il modello di sviluppo della Cina e l’eccezionalismo della sua esperienza storico-culturale, tale discorso, secondo Gallelli, serve ancor più a ratificare il ruolo di leadership del partito e in particolare del suo capo onnipotente, celebrato come un “uomo del popolo” pio e paterno che con il popolo intrattiene un legame affettivo profondo incarnandone la massima saggezza.
Interessato alla figura carismatica di Xi Jinping e al vertiginoso accentramento del potere da parte del “presidente di tutto” è anche il saggio di Tanina Zappone, che però, rivolgendo la propria lente non sull’ideologia ma sulle pratiche istituzionali, si dedica piuttosto all’analisi delle procedure per la selezione e il ricambio della leadership all’interno del partito. Osservando come sovente tale accentramento sia stato dipinto un po’ troppo frettolosamente dai media mainstream come una destabilizzante deriva dispotica che rompe gli equilibri interni del partito comportando il rischio di un ritorno ad arbitrii totalitari come quelli dell’epoca maoista, con molta sobrietà Zappone evidenzia che, a fronte di questa enorme espansione dei poteri presidenziali – sia per l’accumulo delle cariche che per la famigerata abolizione del limite dei due mandati  –, i meccanismi per la transizione della leadership ai vertici del partito sono rimasti saldamente in linea con i trend degli ultimi vent’anni, caratterizzati da un progressivo ringiovanimento e una maggiore professionalizzazione dei leader in carica. Questo suggerisce come, pur di fronte all’indubbia rottura che l’ascesa al potere di Xi Jinping ha significato, permanga una continuità di fondo nella struttura del partito che chiarisce come l’accentramento miri a un rafforzamento del partito nel complesso, e non del suo leader contro il partito. È da quest’ultimo rafforzamento, perciò, come riflette Zappone, che potrebbero venire, semmai, i rischi di un crescente autoritarismo.
Gli interventi che seguono si spostano via via sulla società, osservando in vario modo alcune modalità di relazione con cui le autorità statali  penetrano nella società per governarla strutturando i rapporti con interi gruppi di individui. Sul rapporto fra stato e religione, e nello specifico sul rapporto con l’Islam si concentra il saggio di Tommaso Previato, che si addentra nelle dinamiche con cui il Partito Comunista costruisce e promuove un Islam “buono” distinguendolo da un Islam “cattivo”, attraverso forme di cooptazione di alcuni segmenti delle élites musulmane cinesi miranti a inglobare le stesse all’interno dei meccanismi e dei valori secolari del “socialismo di mercato”. Osservando da un lato lo sviluppo a livello locale di un mastodontico distretto industriale dedicato alla produzione di beni di consumo “halal” destinati al mercato internazionale, nel quale perfino la religione è stata reificata come oggettodi consumo capitalista, e dall’altro le strategie di una politica estera tesa a mobilitare le diaspore musulmane cinesi di alcuni importanti paesi arabi come leva per favorire gli interessi economici e il soft power cinesi in aree dai delicati equilibri regionali, il saggio di Previato offre una prospettiva estremamente interessante per osservare il funzionamento di una globalizzazione “con caratteristiche cinesi”.
Segue il saggio di Guido Samarani, che prende in esame una pratica molto antica, sviluppatasi nel periodo Ming (1368-1644), che il Partito Comunista ha successivamente rinnovato istituzionalizzandola a sua volta dopo la fondazione della Repubblica Popolare: il sistema delle petizioni. Esempio emblematico di continuità storica nelle concezioni cinesi del rapporto fra autorità statale e individuo – a tutt’oggi la pratica in Cina è molto diffusa, e talvolta caratterizzata da ritualismi che rimandano simbolicamente alla tradizione imperiale –, tale sistema consiste nella possibilità, per chi avendo subito dei torti non ha ricevuto giustizia da parte delle autorità locali, di rivolgere le proprie rimostranze alle autorità superiori e in particolare al governo centrale, a cui viene rimesso il giudizio del caso. Di fatto, però, oltre che come strumento di giustizia il sistema delle petizioni funziona anche, e forse anche più significativamente, come strumento di governo, nella misura in cui esso è usato dalle autorità centrali come dispositivo per monitorare l’azione delle autorità inferiori e il “sentimento” della popolazione locale verso di esse. Oggi, tuttavia, uno degli obiettivi di Xi Jinping è quello di rafforzare il sistema del governo “attraverso la legge” a livello locale. Ciò, in teoria, dovrebbe portare a una riduzione del ricorso alle petizioni come mezzo per ottenere giustizia. L’eventuale decrescita delle istanze di petizione, perciò, dovrebbe essere un’utile cartina di tornasole per valutare gli eventuali successi, o meno, di tali politiche.
Mettendo in luce la struttura piramidale del sistema burocratico cinese, il saggio di Samarani crea molte assonanze con il saggio successivo, in cui il politologo cinese Yu Keping descrive quello che lui definisce come un elemento portante e distintivo della società cinese tradizionale, il cosiddetto “funzionariocentrismo” (guanbenzhuyi 官本主义). Tale funzionariocentrismo, come spiega bene Yu Keping, non consiste soltanto nella centralità, all’interno della società cinese, del ruolo dei funzionari e del potere della burocrazia, e insieme nella precisa struttura gerarchica con cui tale ruolo e tale potere sono attribuiti ed esercitati. Esso consiste, ancor più, nel fatto che il possesso del titolo di funzionario rappresenterebbe in essa il massimo valore, e costituirebbe perciò non solo la risorsa più ambita e più preziosa ma anche il metro universale con cui giudicare, e “misurare”, il valore di ogni altro bene e soprattutto ogni persona, la cui posizione nella gerarchia sociale sarebbe in ultima analisi decretata in base al grado della sua prossimità, o distanza, rispetto al potere dei funzionari. Ma lo scopo di Yu Keping, come spesso avviene negli scritti degli intellettuali cinesi, non è tanto riesaminare il passato, quanto semmai criticare il presente: dietro le immagini del funzionariocentrismo tradizionale, abbastanza chiaramente, l’autore fa scorgere i tratti della realtà contemporanea insieme ai contorni del Partito Comunista, che avrebbe ereditato, nella sua struttura così come nella mentalità dei suoi quadri, molti degli elementi costitutivi del funzionariocentrismo tradizionale. Favorendo un’equivalenza fra potere ed etica, come ha notato anche Scarpari nel suo saggio, la mentalità funzionariocentrica attribuisce ai funzionari il titolo superiore di educatori e guide, dando loro un’illimitata facoltà discrezionale; tale mentalità, perciò, è oggi la massima nemica del “governo della legge”, e ostacola perciò la democratizzazione della Cina che Yu Keping invoca invece come unica via per la sua modernizzazione.
Una splendida raffigurazione letteraria degli aspetti più deteriori del funzionariocentrismo contemporaneo la offre quindi Yan Lianke, scrittore fra i più importanti e corrosivi attualmente attivi in Cina, che in un racconto pubblicato per la prima volta nel 2002, “Setola bianca setola nera”, mostra l’assuefazione allo strapotere dei funzionari nell’odierna Cina rurale con il suo tipico stile assurdo teso a deformare la realtà mostrandone gli aspetti patologici e purtuttavia percepiti come normali. Antefatto della storia è il crimine commesso da un potente funzionario locale, reo di avere investito con la macchina, uccidendolo, un giovane passante. Nessuno, però, considera in alcun modo possibile che un funzionario sconti la pena secondo la legge, cosicché l’incidente diventa l’occasione per allestire una grottesca lotteria a cui partecipano numerosi candidati che, pur di ottenere dal funzionario dei favori di scambio, sono pronti ad andare in carcere al suo posto. Fra questi c’è Genbao, un giovane tanto mite quanto emarginato, che pur di riacquistare la dignità che gli è negata agli occhi del villaggio è pronto a perderla vendendosi al funzionario, sognando un riscatto che non potrà però mai avvenire.
Segue una mia intervista a Yan Lianke, autore che nella sua opera letteraria ha portato spesso alla luce, criticandoli, i meccanismi culturali e psicologici con cui il potere domina le relazioni umane permeandone i desideri nell’odierna Cina rurale, dominata da un complicato intreccio di pratiche, credenze e modi di rapportarsi rimasti tradizionali, una struttura politica piramidale, e nuove gerarchie fondate sul denaro che hanno prodotto mercimoni e sottomissioni di ogni sorta. Oltre a questo, Yan Lianke è anche uno scrittore che ha sempre difeso la libertà di parola, criticando a volte anche duramente l’acquiescenza politica degli intellettuali cinesi. Con tale intervista, perciò, Yan Lianke solleva anche la questione importante del complesso rapporto fra stato e intellettuali nella Repubblica Popolare Cinese.
È però il saggio di Gaia Perini che si concentra con grande acume su quest’ultima questione, chiudendo in bellezza la rassegna di questo numero con la sua biografia di uno dei più importanti scrittori cinesi del Novecento, il celebrato romanziere e “coscienza del secolo” Ba Jin. Originariamente anarchico, com’è noto, Ba Jin con i suoi scritti ha ispirato, prima del 1949, la presa di coscienza etica e l’azione politica di almeno due generazioni di rivoluzionari. Proprio in quanto anarchico, però, e quindi comunista eterodosso inizialmente critico verso il leninismo del PCC, più di altri con la fondazione della Repubblica Popolare ha finito per ritrovarsi in un letto di Procuste, risultandogli impossibile non partecipare alla celebrazione del nuovo regime e nello stesso tempo impossibile partecipare mantenendo la sua propria autonomia. Trovandosi nel dilemma tipico degli intellettuali cinesi moderni così come degli antichi letterati confuciani – chiamati a definire il proprio ruolo collaborando con il potere dello stato –  Ba Jin ha scelto di collaborare, salvo poi ritrovarsi perseguitato, disumanizzato, e disumanizzandosi a sua volta assecondando pratiche di persecuzione perpetrate contro altri intellettuali. Ba Jin rappresenta perciò il paradosso di un anarchico che diventa megafono del potere politico dal quale viene infine cannibalizzato, che pure finisce per dar voce, alla fine della sua lunga vita, all’esigenza di riscatto di un’intera classe di intellettuali invocando come principio di espiazione lo svelamento della “verità” storica soppressa. Così, nei primi anni del periodo post-Maoista, Ba Jin chiederà insistentemente l’istituzione di un museo della Rivoluzione Culturale, per ricordarne i crimini commessi ma anche, e soprattutto, le responsabilità che ognuno in quanto cinese avrebbe avuto prendendovi parte. Tale museo, tuttavia, non verrà mai istituito. Al contrario, trent’anni dopo, quando nel 2012 la famosa mostra Sulla via della rinascita celebrerà, dando il via alla retorica del “sogno cinese” del presidente Xi Jinping, la grande ascesa della Cina risorta dalle proprie ceneri dopo il secolo delle umiliazioni, la Rivoluzione Culturale, dimenticata tra i successi nucleari dei primi anni Sessanta e il lancio delle Quattro Modernizzazioni quindici anni dopo, risulterà completamente assente. Questo perché il potere dello stato, come hanno mostrato in vari modi questi contributi, non consiste soltanto nell’uso legittimo della forza, ma consiste ancor prima – e questo è anche più vero laddove lo stato è una forza monistica che tutto cerca di guidare – nel potere di ordinare la realtà, governandone le percezioni, mettendo quindi in risalto gli elementi da celebrare, e togliendo spazio agli elementi critici.

Immagine: I tre funzionari della terra, dell’acqua e del fuoco

Fumian, Ordini del potere PDF

Marco Fumian insegna lingua e letteratura cinese moderna presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”. Interessato alla storia della modernità cinese, indaga in particolare gli intrecci dei discorsi ideologici da cui questa è intessuta, con uno sguardo preminentemente focalizzato sulla contemporaneità. Le sue ricerche si incentrano soprattutto sulla storia della letteratura cinese moderna e sulla cultura popolare della Cina contemporanea. Occasionalmente si cimenta nella traduzione di opere della letteratura cinese moderna.