Madness and the so-called Cultural Revolution seem synonymous to many people outside China who do not know much about China’s history in the past few decades. They think that that period between the late 1960s and the early 1970s was the only time when China went mad. Actually this madness had started already ten years earlier. Either the sense of absolute power had befuddled the brain of Chairman Mao and other veteran revolutionaries, or Chairman Mao felt he was growing old and wanted to see the socialist revolution speeded up so that he could see the victory of world communism before he died. […] I am not saying that in those forty odd years China, under the leadership of the Chinese Communist Party, did not make some great achievements, especially in industrialization and military strength. But, oh what a price we paid!1)Yang Xianyi, White Tiger: An autobiography of Yang Xianyi (Hong Kong: The Chinese University Press, 2002), 209.
Looking back, it is clear that people were totally out of minds at that time, doing everything possible to search for class enemies.2)Feng Jicai, Ten Years of Madness. Oral Histories of China’s Cultural Revolution (San Francisco: China Books & Periodicals, 1996), 7.
Lanciata da Mao Zedong nel maggio del 1966 e conclusasi ufficialmente nel 1976 con la morte del “Grande Timoniere”, la Rivoluzione Culturale (文化大革命) rappresenta una delle pagine più buie della storia della Repubblica Popolare Cinese, e rimane un tema pressoché proibito nell’ambito della ricerca e del dibattito pubblico cinese. Essa si configura come l’ultimo tentativo di Mao di far rivivere gli ideali della rivoluzione, arginare il pericolo del “revisionismo” in Cina e coltivare una nuova generazione di successori rivoluzionari. Il risultato fu la diffusione del caos più assoluto, del terrore e della violenza, spesso inaudita, tra connazionali, nonché la paralisi del sistema politico cinese per circa un decennio. Da qui, la tendenza a vedere la Rivoluzione Culturale come una degenerazione psicopatologica, come una psicosi di massa.
A quarant’anni circa dalla fine della Rivoluzione Culturale non è ancora possibile fornire una stima esatta delle vittime e dei danni inflitti alla società. La chiusura degli archivi centrali del Partito e la frammentazione e la dispersione del materiale esistente rendono arduo il lavoro di ricostruzione degli storici, sia stranieri sia cinesi. Si calcola, tuttavia, che nel decennio 1966-1976 siano morte circa un milione e mezzo di persone, una cifra questa che è necessariamente provvisoria e probabilmente sottovalutata.3)Yang Su, Collective Killings in Rural China during the Cultural Revolution (New York: Cambridge University Press, 2011), 37-38. A questo dato, dobbiamo aggiungere i milioni di cinesi che sono stati ‘deportati’ nelle aree rurali più povere; fra questi molti studenti, intellettuali e quadri del partito. Si stima, ad esempio, che più di 12 milioni di studenti siano stati inviati nelle campagne tra il 1968 e il 1976,4)Cfr. Liu Xiaomeng 刘小萌 et. al., Zhongguo Zhiqing shidian 中国知青事典(Enciclopedia dei giovani istruiti) (Chengdu: Sichuan renmin chubanshe, 1995), 88. con effetti, in molti casi, devastanti sulla psicologia di un’intera generazione, nonché sulla tenuta delle relazioni familiari, già messe a dura prova dai numerosi casi di condanna dei genitori da parte dei figli in cerca dei ‘nemici di classe’. Inoltre, la Rivoluzione Culturale ha provocato la distruzione di una parte importante dei reperti storici e culturali, contro i quali si è riversata la furia distruttiva delle Guardie Rosse a seguito dell’appello di Mao a distruggere i “quattro vecchiumi” (in cinese si jiu 四旧; costumi, abitudini, cultura, idee).
Com’è noto, la Rivoluzione Culturale iniziò con una grande mobilitazione di giovani studenti (le cosiddette “guardie rosse”, in cinese hong weibing 红卫兵)al di fuori dei canali istituzionali. La fase compresa tra il 1966 e il 1968 vide le masse svolgere un ruolo centrale e la violenza diffondersi in molte aree del paese. Nell’estate del 1966 gli studenti dei collegi e delle università si mobilitarono contro l’ordine costituito, attaccando insegnanti, intellettuali e quadri del partito. Per quanto l’inizio del movimento risalisse al mese di maggio del 1966, quando fu approvata la Circolare del 16 maggio, furono la pubblicazione del famoso articolo di Mao Zedong con le parole d’ordine “Bombardare il quartier generale” (炮打司令部) e l’adozione della Decisione del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese riguardante la grande rivoluzione culturale proletaria, anche nota come Decisione in sedici punti (十六条), agli inizi di agosto a dare slancio alla mobilitazione popolare contro gli apparati del partito. La Decisione definiva gli obiettivi del movimento: “Il nostro obiettivo è attaccare e annientare quelle persone che detengono l’autorità e hanno preso la via del capitalismo, criticare e ripudiare le ‘autorità’ accademiche borghesi reazionarie e l’ideologia della borghesia e di tutte le classi sfruttatrici […]. Coloro all’interno del Partito che detengono l’autorità e stanno imboccando la via capitalista sono il principale bersaglio del movimento”. Al contempo, il documento esplicitava i metodi da seguire, mettendo in chiaro che le masse dovevano emanciparsi e non si poteva in alcun modo agire al loro posto: “Fidiamoci delle masse, contiamo su di loro e rispettiamo la loro iniziativa. Scacciamo la paura e non temiamo il caos”.5)“中国共产党中央委员会关于无产阶级文化大革命的决定”, 8 agosto 1966. Per una traduzione in inglese del testo si veda Michael Schoenhals (a cura di), China’s Cultural Revolution, 1966-1969. Not a Dinner Party (Armonk, New York: M.E. Sharpe, 1996), 33-43. La pubblicazione del documento nel Renmin ribao 人民日报 il 9 agosto scatenò quello che è passato alla storia come l’‘Agosto Rosso’ (红八月) delle Guardie Rosse, nell’ambito del quale alla persecuzione della gente comune si aggiunse la lotta contro i quadri e dirigenti del Partito accusati di ‘aver imboccato la via del capitalismo’, quindi di essersi allontanati dalla linea maoista. Tra i bersagli di quel periodo non possiamo non ricordare dirigenti di alto grado come Liu Shaoqi e Deng Xiaoping che scomparvero rapidamente dalla vita pubblica (Liu Shaoqi morì pochi anni dopo in seguito alle persecuzioni).
Se in passato le forze sociali erano state segmentate verticalmente, adesso si assisteva, per la prima volta nella storia della Repubblica Popolare, a un movimento popolare “dal basso verso l’alto”, nonostante fosse evidente il forte legame con la leadership suprema, quella del Presidente Mao. A Mao si richiamavano, infatti, i diversi gruppi rivoluzionari in cui si andava articolando il movimento delle Guardie Rosse. Basti ricordare il primo grande raduno delle Guardie Rosse, il 18 agosto a Tian’anmen, quando Mao ricevette migliaia di giovani che sfoggiavano il libretto rosso come segno di devozione al leader supremo.
Il movimento, da Pechino, si diffuse presto in altre città e province cinesi. Dal gennaio 1967 furono presi di mira i governi e gli apparati del Partito a livello locale. Dopo Shanghai, in molte città ci fu il crollo dell’autorità con la presa del potere da parte dei ribelli. A quel punto il movimento di massa divenne una forza distruttiva e incontrollabile, perché spaccato in fazioni in conflitto tra di loro; al caos diffuso si accompagnarono eccessi e crimini disumani contro i presunti nemici del popolo. Di fronte all’incapacità delle masse di procedere dalla distruzione del vecchio ordine sociale alla creazione di una nuova società, Mao si convinse della necessità di restaurare l’ordine facendo dell’Esercito il perno dei nascenti ‘comitati rivoluzionari’. Ma il livello dello scontro non si abbassò. Anzi, la situazione si aggravò con battaglie accanite e scontri armati. Nel 1967-1968 la Cina era sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Solo alla fine del 1968, con l’intervento dell’esercito, la smobilitazione delle Guardie Rosse e l’invio di milioni di giovani nelle campagne per essere rieducati dai contadini, si pose termine all’anarchia. Gli anni seguenti videro il conflitto svilupparsi nei palazzi del potere, in seno all’élite politica.6)Per un’autorevole ricostruzione della Rivoluzione Culturale si veda Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals, Mao’s Last Revolution (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2008).
Se per molti anni l’attenzione degli studiosi interessati al movimento di massa è stata sulle aree urbane e sul movimento delle giovani Guardie Rosse, studi locali condotti dagli anni Novanta hanno contribuito a una valutazione più complessiva della Rivoluzione Culturale, illuminando una realtà ben più complessa e diversificata da area ad area. È stata, ad esempio, evidenziata la peculiarità della rivoluzione in determinati centri urbani come a Shanghai, dove il movimento di massa si configurò largamente come un movimento operaio, piuttosto che studentesco.7)Elizabeth Perry e Li Xun, Proletarian Power: Shanghai in the Cultural Revolution (Boulder, Colorado: Westview Press, 1997). Altri studi hanno sfatato l’idea che la Rivoluzione Culturale fosse un fenomeno quasi esclusivamente urbano. Yang Su, ad esempio, ha esaminato l’impatto umano nelle aree rurali più remote, mostrando come il Guangxi e il Guangdong furono le province in cui si registrò il più alto numero di vittime. Qui, infatti, a partire dalla fine del 1967 la creazione dei ‘comitati rivoluzionari’ coincise con la diffusione di assassini collettivi.8)Yang Su, Collective killings. Un quadro simile esce dal dettagliato resoconto di Tan Hecheng, un giornalista cinese che, nella metà degli anni Ottanta, in un clima di crescente apertura segnato dalla dirigenza riformista di Hu Yaobang, fu incaricato dal suo giornale di investigare sul massacro di Daoxian, un distretto rurale nello Hunan dove nel settembre del 1967 vennero ammazzate 9.093 persone.9)Tan Hecheng, The Killing Wind. A Chinese County’s Descent into Madness During the Cultural Revolution (Oxford: Oxford University Press, 2017).
Negli ultimi decenni numerosi studiosi si sono interrogati sulla violenza di massa che caratterizzò i primi anni della Rivoluzione Culturale; un argomento complesso ancora oggi al centro del dibattito storiografico. Cosa ha spinto i cinesi a commettere atti di violenza contro i propri concittadini, arrivando persino a cercare, umiliare e terrorizzare i “nemici di classe” all’interno delle proprie famiglie? La diffusione della violenza e di comportamenti apparentemente folli e irrazionali fu in qualche modo indotta dalle politiche dello stato o, invece, un fenomeno spontaneo? Può la Rivoluzione Culturale essere letta come una follia collettiva o, in altre parole, come l’esito di una degenerazione psicopatologica intesa non solo a livello individuale ma anche politico e sociale? Lungi dal voler fornire una risposta esaustiva a tali complesse domande, qui si cercherà, piuttosto, di proporre una riflessione, anzitutto, sulle ragioni della Rivoluzione Culturale, per poi passare a esaminare le cause del fazionalismo e della violenza di massa sulla base delle interpretazioni prevalenti, con particolare attenzione alle condizioni sociali e ideologiche che legittimarono i comportamenti violenti. Il trionfo del fanatismo e dell’ossessione, a livello sia individuale (Mao Zedong) che collettivo, non fu semplicemente una follia, quanto piuttosto il risultato di un lungo processo che aveva portato razionalmente agli estremi gli ideali della rivoluzione.
Comprendere la Rivoluzione culturale, il ‘decennio di caos’ (shinian dongluan 十年动乱) o ‘il decennio di calamità’ (shinian haojie十年浩劫) come è definita ufficialmente in Cina, significa anzitutto collocarla nel suo contesto storico e capirne le origini. Come scrivono Macfarquhar e Schoenhals, i maggiori esperti mondiali del periodo, “To understand what happened during the Cultural Revolution, one has to understand how it came to be launched”.10)MacFarquhar e Schoenhals, Mao’s Last Revolution, 1.
La Rivoluzione Culturale è stata interpretata come una campagna politica lanciata da Mao per eliminare i suoi avversari politici, ovvero come il frutto di una scelta rivoluzionaria dettata della paura di Mao di perdere il controllo del Partito. D’altra parte, essa affondava le radici nell’idea della ‘rivoluzione permanente’ e nella crescente preoccupazione di Mao circa il futuro della Cina. Le radici ideologiche della Rivoluzione Culturale vanno cercate prima del 1966, nella reazione di Mao a una serie di sviluppi a livello domestico e internazionale;11)Sulle radici ideologiche della Rivoluzione Culturale si veda la fondamentale trilogia di Roderick MacFarquhar, The Origins of the Cultural Revolution (vol. 1: Contradictions Among the People 1956-1957, vol. 2: The Great Leap Forward 1958-1960, vol. 3: The Coming of the Cataclysm 1961-1966) (New York: Columbia University Press, 1974, 1983, 1997). lo scoppio della Rivoluzione Culturale fu, infatti, il risultato della valutazione di Mao rispetto a cosa stava avvenendo in Urss dopo Stalin (dottrina di Nikita Kruscev sulla coesistenza pacifica con l’Occidente e sulla transizione pacifica al socialismo) e, al tempo stesso, all’interno del Partito e del paese. Con il Grande Balzo in Avanti, criticato – come è noto – da alcuni dirigenti tra cui l’allora Ministro della Difesa Peng Dehuai, all’interno della dirigenza si verificò una grave frattura, che si sarebbe acuita qualche anno dopo con lo scontro politico sul modello di sviluppo socialista del paese. La grande carestia del 1960 costrinse Mao a fare un passo indietro, ma le innovazioni politiche introdotte dai suoi colleghi soprattutto nel settore agricolo con il ritorno a forme di economia familiare, portarono presto Mao a dettare nuovamente l’agenda e a insistere sul mantenimento dell’agricoltura collettiva.
Preoccupato riguardo agli sviluppi in Urss e al pericolo di una restaurazione capitalista in Cina, Mao si convinse della necessità di combattere e prevenire il revisionismo. Il momento di svolta è rappresentato dalla decima sessione plenaria dell’VIII Comitato Centrale del PCC (settembre 1962) nel corso della quale Mao lanciò il suo appello a “non dimenticare mai la lotta di classe” (千万不要忘记阶级斗争), riaffermando la propria autorità e, con essa, l’idea fondamentale che nella società socialista il conflitto di classe continua ancora per un lungo periodo dopo la vittoria della rivoluzione.12)Yang Kuisong and Stephen A. Smith, “Communism in China, 1900-2010”, in Stephen A. Smith (a cura di), The Oxford Handbook of the History of Communism (Oxford: Oxford University Press, 2014), 227-29. La nuova offensiva politica, che implicava, tra le altre cose, la ridefinizione da parte di Mao della concezione di classe sociale, intesa ora non solo in termini oggettivi (ossia in rapporto ai mezzi di produzione) ma anche come uno stato mentale, sfociò nella decisione di lanciare il Movimento di Educazione Socialista, una campagna volta a rettificare il partito, accusato di essersi allontanato dalle masse, che si tradusse, di fatto, in una lotta ambigua e mai esplicita tra Mao e i suoi “oppositori” (in particolare Deng Xiaoping e Liu Shaoqi). L’evoluzione della campagna di rettifica portò Mao a prefigurare già nel gennaio 1965 un movimento ben più ampio e significativo, che avrebbe avuto come bersaglio “le persone in posizioni di autorità nel partito che hanno imboccato la via del capitalismo”.13)MacFarquhar e Schoenhals, Mao’s Last Revolution, 13.
Mentre si delineava una contrapposizione tra il ruolo del leader e la direzione collettiva, la preoccupazione di Mao circa il futuro della Cina e, più in generale del mondo socialista, aumentava fino a diventare un’ossessione. Parallelamente, si fece sempre più pressante l’appello ai giovani a mantenere vivi i principi rivoluzionari per i quali i comunisti cinesi avevano a lungo lottato. Il timore che proprio i giovani potessero arrivare un giorno a “rinnegare la rivoluzione e fare la pace con l’imperialismo”, come Mao stesso confidò al giornalista americano Edgar Snow in un’intervista rilasciata nel 1965,14)Edgar Snow, La lunga rivoluzione (Torino: Einaudi, 1973), 231. concorreva a spiegare l’enfasi crescente sulla necessità di formare successori rivoluzionari. D’altra parte, se l’attenzione di Mao alla formazione sul piano ideologico, conoscitivo e morale delle nuove generazioni e la sua fede nella giovinezza non erano certo una novità, dalla fine degli anni Cinquanta la sua visione rispetto alla gioventù si andò intrecciando sempre di più con la questione dell’età e della successione. Come scrive Lowell Dittmer, “as age took on increasingly negative connotations, youth assumed a correspondingly exaggerated significance”.15)Lowell Dittmer, “Mao and the Politics of Revolutionary Mortality.” Asian Survey, 27 (3), 1987, 325. La formazione di successori rivoluzionari finì, dunque, per diventare, agli occhi di Mao, una questione di vita o di morte per il partito e per il paese.
I riflessi di questo pensiero si videro, ad esempio, nelle politiche della Lega Giovanile Comunista, chiamata proprio in quegli anni a rafforzare la coscienza di classe e la pratica della lotta di classe tra i giovani, promuovendo attività che rievocassero le sofferenze subite dal popolo nel periodo pre-1949 ed esaltassero per contrasto la “dolcezza” della vita sotto il regime comunista.16)Gongqingtuan zhongyang bangongting 共青团中央办公厅(a cura di). Tuan de wenjian huibian 1963团的文件汇编1963 (Raccolta di documenti della Lgc 1963), Beijing, 5-11. Neppure la famiglia fu risparmiata, allorché i giovani furono incoraggiati a portare la lotta di classe all’interno delle loro famiglie, e a investigare sulle origini “cattive” dei loro genitori. La pervasività della retorica della lotta di classe e l’interiorizzazione di un linguaggio di odio che tracciava un confine netto tra il popolo e i nemici di classe, contribuirono a forgiare la psicologia di una generazione e a spostare i limiti di ciò che la morale pubblica considerava accettabile. Questo spiega, in parte, la furia con cui le Guardie Rosse attaccarono i nemici di classe, anche chiamati “mostri e demoni” (niugui sheshen 牛鬼蛇神), umiliando, disumanizzando e terrorizzando le vittime durante la Rivoluzione Culturale.17)Ji Fengyuan, Linguistic Engineering: Language and Politics in Mao’s China (Honolulu: University of Hawai’i Press 2004), cap. 5.
Dal 1962-1963 la diffusione della retorica della lotta di classe coincise, inoltre, con specifiche misure e iniziative volte a restaurare l’autorità di Mao, entrata parzialmente in crisi negli anni precedenti, e a porre le basi di un vero e proprio culto della personalità. Non a caso, nel rapporto sulla revisione dello Statuto della Lega Giovanile Comunista del 1964 si sottolineava la necessità di fare del pensiero di Mao il punto di riferimento ideologico del lavoro giovanile e la componente indispensabile della “rivoluzionarizzazione” (geminghua 革命化) della gioventù.18)Gongqingtuan zhongyang bangongting (a cura di) Tuan de wenjian huibian 1964 (Raccolta di documenti della Lgc 1964). Beijing, v. 1, 40-55.
Quando Mao lanciò il suo appello a “bombardare il quartier generale”, trovò milioni di giovani ragazzi che, cresciuti in un clima di crescente radicalizzazione politica e pressione ideologica, risposero con devozione ed entusiasmo, convinti di essere i protagonisti assoluti di un ‘grande evento’, di una rivoluzione che avrebbe salvato la Cina. In questo senso, la straordinaria mobilitazione studentesca che seguì l’avvio della Rivoluzione Culturale non era una follia ma, semmai, l’espressione di una esaltazione portata all’estremo. Quanto alla violenza delle Guardie Rosse, essa affondava le radici nella moralità maoista della violenza di classe, che nel 1966 era diventata il codice etico dominante.19)Anne F. Thurston, “Urban Violence During the Cultural Revolution: Who Is to Blame?”, in Jonathan N. Lipman and Stevan Harrell (a cura di), Violence in China: Essays in Culture and Counterculture (New York: State University of New York Press, 1990), 152-153.
Diversi studiosi si sono interrogati sugli eccessi della Rivoluzione Culturale, risalendo agli anni precedenti e ricercando nel contesto politico, sociale ed educativo le cause del fanatismo e delle violenze delle Guardie Rosse. Anita Chan, ad esempio, ha individuato nella psicologia sociale della prima generazione nata e cresciuta sotto il socialismo e, in particolare, nella formazione di una “personalità autoritaria”, riconducibile alla pressione del conformismo e al processo di socializzazione politica, le origini dell’esaltazione tipica della prima fase della Rivoluzione Culturale.20)AnitaChan, Children of Mao: Personality Development and Political Activism in the Red Guard Generation (Seattle: University of Washington Press, 1985). Studi basati prevalentemente sulle interviste a emigrati cinesi a Hong Kong, che negli anni Sessanta frequentavano le scuole superiori cantonesi, attribuiscono un ruolo importante all’ambiente scolastico urbano, che già all’inizio degli anni Sessanta conteneva quegli antagonismi legati alla posizione sociale di ciascun individuo che sarebbero emersi come causa principale di conflittualità e tensione tra gli studenti.21)Cfr. ad esempio Anita Chan, Stanley Rosen e Jonathan Unger, “Students and Class Warfare: The Social Roots of the Red Guard Conflict in Guangzhou (Canton),” The China Quarterly, 83, 1980, 397-446; Jonathan Unger, Education under Mao. Class and Competition in Canton Schools, 1960-1980 (New York: Columbia University Press, 1982). Dal 1960, la competizione per accedere all’istruzione secondaria fu, infatti, acuita dai mutamenti nei criteri di ammissione usati dalle università e dagli istituti superiori, che ora davano importanza alla provenienza sociale, ora al comportamento politico e, quindi, alla coscienza di classe del candidato. La possibilità data anche ai figli delle vecchie classi sfruttatrici di mostrare il proprio attivismo e ottenere credenziali politiche favorì un clima di competizione tra i diversi gruppi sociali. A esacerbare le tensioni contribuirono l’incertezza e la confusione derivanti dal fatto che, pur attaccando una nuova classe privilegiata composta da quadri di partito e di governo, i cui figli erano i principali beneficiari della “linea di classe” (阶级路线), Mao Zedong continuava a servirsi del vocabolario della lotta di classe, vedendo le lotte nuove sullo sfondo di quelle passate. Incoraggiati e legittimati dal rinvigorimento dello spirito di classe, i giovani provenienti da famiglie “rosse” ‒ soprattutto i figli di quadri del partito e dell’esercito ‒ tendevano a difendere il proprio status e ad affermare il valore della loro origine sociale e del contributo dato dalle loro famiglie alla causa rivoluzionaria e socialista. Tali studi, muovendo dalla teoria dei movimenti sociali, rivelano che lo sviluppo, nei primi anni della Rivoluzione Culturale, di una guerra intestina tra fazioni (l’una più conservatrice composta da figli delle famiglie ‘rosse’, e l’altra, più radicale, composta da giovani con un background sociale ‘nero’) era largamente riconducibile al peso dell’“origine di classe” e al conflitto tra diversi gruppi di interesse. Il nesso tra class status e gruppi rivali di Guardie Rosse è stato di recente messo in discussione dall’indagine del sociologo americano Andrew Walder sull’evoluzione del movimento di massa a Pechino. Egli ha individuato essenzialmente nella situazione politica contingente i fattori all’origine del fazionalismo delle Guardie Rosse, suggerendo che lo sviluppo del movimento dipese in gran parte da ciò che avvenne durante i primi due mesi della Rivoluzione Culturale, quando le ‘squadre di lavoro’ vennero inviate nei campus per riportare l’ordine. Fu in molti casi l’atteggiamento assunto dalle squadre nei confronti dell’apparato del partito nelle istituzioni scolastiche a determinare la divisione degli studenti in campi contrapposti.22)Andrew G. Walder, Fractured Rebellion: The Beijing Red Guard Movement (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2009).
D’altra parte, la divisione in fazioni contrapposte e la violenza in cui sfociò il movimento di massa non furono fenomeni del tutto spontanei. Basti pensare al coinvolgimento di Mao e, in particolare, dei membri della sua ristretta cerchia (tra cui la moglie Jiang Qing) che, come mostrano i documenti storici, furono attivi sin dalle prime fasi della campagna nel manipolare e appoggiare ora l’uno, ora l’altro gruppo di Guardie Rosse.23)Si veda, ad esempio, il documento n. 19 nella racconta a cura di Michael Schoenhals, China’s Cultural Revolution, 1966-1969. Not a Dinner Party, 95-101. Da recenti indagini sappiamo, inoltre, che in certi distretti rurali le masse furono istigate dai nuovi burocrati saliti al potere a livello locale a partire dal 1967 (quadri locali, membri del PCC e ufficiali dell’esercito) a commettere crimini e massacri contro esponenti delle vecchie classi sfruttatrici, in particolare proprietari terrieri e contadini ricchi, già ostracizzati durante la campagna di riforma agraria. Nel caso delle esecuzioni sommarie avvenute nel distretto di Daoxian, ad esempio, più della metà dei cinesi direttamente coinvolti nella strage di più di 9.000 persone (accusate, spesso mediante fabbricazione di false accuse, di essere ‘controrivoluzionari’) era costituita da membri del partito e quadri locali che, in certi casi, agirono eseguendo ordini provenienti dai livelli superiori.24)Tan Hecheng, The Killing Wind, 21. Secondo Yang Su, è tuttavia problematico ridurre gli eccessi entro la categoria della persecuzione ad opera della macchina dello stato comunista, perché a livello di comunità rurali furono in larga misura specifiche condizioni locali a determinare l’evoluzione e l’intensità del conflitto. Ad esempio, nelle zone maggiormente interessate dalle esecuzioni di massa, come il Guangdong e il Guangxi, la retorica e la politica della lotta di classe si intrecciarono con fattori di carattere culturale come la competizione e il conflitto tra clan, oltre che con le tensioni politico-sociali che accompagnarono il crollo dell’autorità e la nascita di nuovi governi locali tra la fine del 1967 e i primi mesi del 1968.25)Yang Su, Collective Killings in Rural. Apparentemente irrazionale e senza senso – come la descrisse, ad esempio, William Hinton nel suo resoconto Shenfan: The Continuing Revolution in a Chinese Village (1984) – la violenza, che in molti villaggi degenerò in una spirale inarrestabile, fu spesso alimentata dal desiderio di vendetta e – come sostiene il sociologo Richard Madsen – si configurò come una scelta razionale per molti partecipanti. Il sentimento di vendetta affondava le radici nelle campagne politiche precedenti e nell’uso sistematico della memoria delle ingiustizie subite a opera dei nemici di classe (le cosiddette “amarezze del passato”) come strumento di mobilitazione di massa. Le lotte tra fazioni contrapposte erano, infatti, “captivated by the power of collective memory in rural China to define particular patterns of factional loyalty, rooted in a commitment to the past”.26)Richard Madsen, “The Politics of Revenge in Rural China During the Cultural Revolution”, in Jonathan N. Lipman and Stevan Harrell (eds.), Violence in China: Essays in Culture and Counterculture, State University of New York Press, 1990, 187. Nel contempo, in una fase di ridefinizione della linea di confine tra le classi antagoniste, le lotte tra fazioni finirono per non essere sempre riconducibili alla tradizionali divisioni di classe, un fatto questo che acuì la confusione e non consentì la fuoriuscita dal ciclo della violenza in cui le vittime diventavano spesso carnefici e viceversa.
La Rivoluzione culturale fu un fenomeno talmente complesso che difficilmente può essere ridotto entro la categoria della follia. Essa si configurò come l’ultimo disperato tentativo di Mao di consolidare la propria autorità e di usare il proprio potere, ormai totale, per difendere la purezza rivoluzionaria, un’ossessione questa che era cresciuta rapidamente con l’avanzare dell’età. Nel chiamare i giovani a fare la rivoluzione, Mao sprigionò le loro energie e lasciò spazio alla pulsione emotiva della mobilitazione di massa, fiducioso nella capacità delle masse di passare dalla distruzione dell’ordine costituito alla creazione di una nuova società rivoluzionaria. L’utopia legittimò l’azione rivoluzionaria ma la violenza dello scontro e il fazionalismo che seguirono fecero precipitare il paese nel caos e nella guerra civile. Lungi dal rappresentare la manifestazione della follia di un popolo, la violenza e la distruzione furono spesso scelte razionali, espressione di tensioni sostanzialmente riconducibili a fattori di ordine politico, sociale e istituzionale, che affondavano le loro radici nel periodo precedente al 1966 e in un quadro ideologico che aveva spostato i limiti di ciò che era considerato accettabile.
Graziani, Una follia collettiva? PDF
Immagine: illustrazione di Wu Jie
Sofia Graziani è ricercatrice presso l’Università degli Studi di Trento dove insegna Lingua e Cultura Cinese e Storia della Cina contemporanea. Le sue ricerche riguardano la società e la politica cinese in epoca contemporanea, con particolare riguardo alla storia dei giovani e delle organizzazioni politiche giovanili, e le relazioni fra Cina e Italia negli anni della Guerra Fredda. Più recentemente la ricerca si è focalizzata sulla strategia di soft power cinese in Africa e sulle pratiche discorsive cinesi su gioventù e volontariato. Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato Il Partito e i giovani. Storia della Lega giovanile comunista in Cina (Venezia, 2013) e Roads to Reconciliation. People’s Republic of China, Western Europe and Italy During the Cold War Period (1949-1971) (curato insieme a Guido Samarani e Carla Meneguzzi Rostagni, Venezia 2018).
↑1 | Yang Xianyi, White Tiger: An autobiography of Yang Xianyi (Hong Kong: The Chinese University Press, 2002), 209. |
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↑2 | Feng Jicai, Ten Years of Madness. Oral Histories of China’s Cultural Revolution (San Francisco: China Books & Periodicals, 1996), 7. |
↑3 | Yang Su, Collective Killings in Rural China during the Cultural Revolution (New York: Cambridge University Press, 2011), 37-38. |
↑4 | Cfr. Liu Xiaomeng 刘小萌 et. al., Zhongguo Zhiqing shidian 中国知青事典(Enciclopedia dei giovani istruiti) (Chengdu: Sichuan renmin chubanshe, 1995), 88. |
↑5 | “中国共产党中央委员会关于无产阶级文化大革命的决定”, 8 agosto 1966. Per una traduzione in inglese del testo si veda Michael Schoenhals (a cura di), China’s Cultural Revolution, 1966-1969. Not a Dinner Party (Armonk, New York: M.E. Sharpe, 1996), 33-43. |
↑6 | Per un’autorevole ricostruzione della Rivoluzione Culturale si veda Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals, Mao’s Last Revolution (Cambridge, MA: Harvard University Press, 2008). |
↑7 | Elizabeth Perry e Li Xun, Proletarian Power: Shanghai in the Cultural Revolution (Boulder, Colorado: Westview Press, 1997). |
↑8 | Yang Su, Collective killings. |
↑9 | Tan Hecheng, The Killing Wind. A Chinese County’s Descent into Madness During the Cultural Revolution (Oxford: Oxford University Press, 2017). |
↑10 | MacFarquhar e Schoenhals, Mao’s Last Revolution, 1. |
↑11 | Sulle radici ideologiche della Rivoluzione Culturale si veda la fondamentale trilogia di Roderick MacFarquhar, The Origins of the Cultural Revolution (vol. 1: Contradictions Among the People 1956-1957, vol. 2: The Great Leap Forward 1958-1960, vol. 3: The Coming of the Cataclysm 1961-1966) (New York: Columbia University Press, 1974, 1983, 1997). |
↑12 | Yang Kuisong and Stephen A. Smith, “Communism in China, 1900-2010”, in Stephen A. Smith (a cura di), The Oxford Handbook of the History of Communism (Oxford: Oxford University Press, 2014), 227-29. |
↑13 | MacFarquhar e Schoenhals, Mao’s Last Revolution, 13. |
↑14 | Edgar Snow, La lunga rivoluzione (Torino: Einaudi, 1973), 231. |
↑15 | Lowell Dittmer, “Mao and the Politics of Revolutionary Mortality.” Asian Survey, 27 (3), 1987, 325. |
↑16 | Gongqingtuan zhongyang bangongting 共青团中央办公厅(a cura di). Tuan de wenjian huibian 1963团的文件汇编1963 (Raccolta di documenti della Lgc 1963), Beijing, 5-11. |
↑17 | Ji Fengyuan, Linguistic Engineering: Language and Politics in Mao’s China (Honolulu: University of Hawai’i Press 2004), cap. 5. |
↑18 | Gongqingtuan zhongyang bangongting (a cura di) Tuan de wenjian huibian 1964 (Raccolta di documenti della Lgc 1964). Beijing, v. 1, 40-55. |
↑19 | Anne F. Thurston, “Urban Violence During the Cultural Revolution: Who Is to Blame?”, in Jonathan N. Lipman and Stevan Harrell (a cura di), Violence in China: Essays in Culture and Counterculture (New York: State University of New York Press, 1990), 152-153. |
↑20 | AnitaChan, Children of Mao: Personality Development and Political Activism in the Red Guard Generation (Seattle: University of Washington Press, 1985). |
↑21 | Cfr. ad esempio Anita Chan, Stanley Rosen e Jonathan Unger, “Students and Class Warfare: The Social Roots of the Red Guard Conflict in Guangzhou (Canton),” The China Quarterly, 83, 1980, 397-446; Jonathan Unger, Education under Mao. Class and Competition in Canton Schools, 1960-1980 (New York: Columbia University Press, 1982). |
↑22 | Andrew G. Walder, Fractured Rebellion: The Beijing Red Guard Movement (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2009). |
↑23 | Si veda, ad esempio, il documento n. 19 nella racconta a cura di Michael Schoenhals, China’s Cultural Revolution, 1966-1969. Not a Dinner Party, 95-101. |
↑24 | Tan Hecheng, The Killing Wind, 21. |
↑25 | Yang Su, Collective Killings in Rural. |
↑26 | Richard Madsen, “The Politics of Revenge in Rural China During the Cultural Revolution”, in Jonathan N. Lipman and Stevan Harrell (eds.), Violence in China: Essays in Culture and Counterculture, State University of New York Press, 1990, 187. |