Nel Terzo Plenum del Diciottesimo Comitato Centrale del PCC è stata adottata la risoluzione di approfondire in modo comprensivo le riforme.1)Scritto a maggio 2014 e pubblicato su China News Digest. Per la traduzione del testo, vedi Marco Fumian, “Quali valori per la modernità occidentale”, nota 1. Tale risoluzione è la replica alle critiche che sono venute dalla società in questi anni, la risposta che affronta le attuali contraddizioni sociali. È una promessa nei confronti dei cittadini: ciò che troviamo, nel programma di riforme contenuto nella risoluzione, sono le istanze espresse dai cittadini in questi anni, l’elenco dei problemi dei quali essi stanno attendendo una soluzione. La questione cruciale, tuttavia, è come attuare la risoluzione. An Zhiwen, ex segretario del partito all’interno della Commissioneper le Riforme Strutturali Nazionali negli anni Ottanta, dopo averla letta ha commentato: “Indubbiamente è scritta bene, temo solo che non sia attuabile”. Perché mai, non sarebbe attuabile? La causa, secondo me, starebbe nell’ostruzionismo del sistema politico. Oggi l’ostacolo più profondo alle riforme economiche si trova nel sistema politico. Se il sistema politico non si riforma sarà difficile continuare a portare avanti le riforme economiche. D’altra parte, lo ha detto proprio Xi Jinping che l’ostacolo alla riforma si trova nel “sistema”. Il quale, da come l’ho intesa io, consiste principalmente nel sistema politico. Ciò è la conseguenza dell’aver fatto, per oltre trent’anni, solo riforme economiche non facendo riforme politiche.
Questa tendenza, in realtà, non ha avuto inizio con il periodo riformista inaugurato da Deng Xiaoping. Già nel corso delle riforme del periodo tardo-Qing, sul finire dell’Ottocento, Zhang Zhidong aveva espresso come principio-guida “il sapere cinese come sostanza, il sapere occidentale come mezzo (zhong xue wei ti, xi xue wei yong 中学为体西学为用). “Sapere cinese come sostanza” equivaleva a preservare il sistema politico della dinastia Qing, mentre “sapere occidentale come mezzo” voleva dire importare le conoscenze occidentali sul piano strumentale per usarle a proprio vantaggio. L’obiettivo, in quest’ultimo caso, era sfruttare gli strumenti occidentali per rafforzare il sistema politico del tardo periodo imperiale, consolidarne il dominio e allungare la vita della sempre più declinante dinastia Qing. La storia ha già dimostrato il fallimento di tale principio.
Le riforme di Deng Xiaoping, invece, avevano come orientamento il principio de “un centro e due punti fondamentali”, dove il centro corrispondeva alla costruzione economica, mentre i due punti fondamentali erano da un lato l’adesione ai “quattro principi fondamentali”,2)I “quattro principi fondamentali” sono i principi con cui il PCC nel 1979 riaffermava la supremazia del partito, l’insindacabilità del sistema socialista, la correttezza dell’ortodossia marxista-leninista e l’uso legittimo della violenza da parte dello stato contro i suoi contestatori, in opposizione alle istanze del movimento democratico che avevano portato alla richiesta della “quinta modernizzazione” (la democrazia). dall’altro il programma di Riforma e Apertura. Tale formula, come ho già affermato nel mio libro del 1998 L’era di Deng Xiaoping, costituiva la versione aggiornata del principio di Zhang Zhidong: l’adesione ai “quattro principi fondamentali” corrispondeva al “sapere cinese come sostanza”, mentre il programma di Riforma e Apertura corrispondeva al “sapere occidentale come mezzo”. Il suo obiettivo, infatti, era esattamente questo: sviluppare l’economia al fine di rafforzare, consolidare e allungare la vita del sistema politico esistente.
Oggi, grazie al programma di Riforma e Apertura – con la sua istantanea liberazione delle energie sociali a lungo soppresse e la mutuazione delle esperienze positive dell’Occidente in ambito economico – la Cina è diventata la seconda economia mondiale: un successo che tutti nel mondo ci riconoscono. Eppure, data la scelta di fare solo riforme economiche senza fare riforme politiche, ciò che si è finito per creare non è un’economia di mercato, ma bensì un’“economia di mercato basata sul potere” (quanli shichang jingji 权力市场经济); un’economia di mercato, cioè, che dal potere è diretta e controllata, ne è distorta, e nella quale è il potere stesso a entrare nel mercato come merce. Questo potere è costituito da un sistema che dagli anni della pianificazione è rimasto sempre uguale, non si è mai riformato, ed è privo di qualsiasi contrappeso.
In Cina il processo di modernizzazione ha sempre risentito profondamente della contrapposizione fra “sostanza cinese” e “mezzo occidentale”, e sempre è stato accompagnato dalla disputa fra “occidentalizzazione” (xihua 西化) e anti-occidentalizzazione (fan xihua 反西化), la quale si è puntualmente riacutizzata a ogni passaggio critico in cui avvenivano importanti cambiamenti sociali. Tale disputa è andata avanti per oltre un secolo, e continua ancora oggi. In fondo le dispute odierne sui “valori universali”, o quelle sulla “democrazia costituzionale”, non sono altro che l’aggiornamento della vecchia disputa fra occidentalizzazione e anti-occidentalizzazione.
L’occidentalizzazione si divide in un piano strumentale e in un piano istituzionale. Quanto al primo, non c’è nessuna controversia. D’altra parte quale degli strumenti che usiamo oggi per vestirci, abitare, spostarci e relazionarci con gli altri non è frutto del sapere occidentale? Perfino in quello che mangiamo ci sono molti ingredienti occidentali. È tanto, ormai, che sul piano strumentale ci siamo “occidentalizzati in modo totale” (quanpan xihua 全盘西化), laddove, peraltro, coloro che hanno goduto per primi, e più abbondantemente, dei frutti dell’occidentalizzazione sono stati proprio quelli che più recisamente vi si sono opposti. La disputa, semmai, verte sull’occidentalizzazione sul piano istituzionale, che costituisce anche il vero nodo della questione. Per la Cina infatti modernizzarsi non vuol dire soltanto studiare le tecniche avanzate dell’Occidente sul piano strumentale per raggiungere il livello delle forze produttive occidentali, ma deve vuol dire, anche, realizzare a livello istituzionale il sistema dell’economia di mercato e quello a esso congruo della democrazia moderna. L’“occidentalizzazione” corrisponde al processo con cui il sistema politico-economico avanzato dell’Occidente si diffonde a livello mondiale, un fatto che più che una tendenza è una realtà verificatisi ininterrottamente dall’inizio dell’epoca moderna. Per la Cina, perciò, l’“occidentalizzazione” corrisponde al processo della modernizzazione: il processo, cioè, attraverso cui la civiltà industriale trasforma quella contadina e la moderna politica democratica trasforma la tradizionale politica autocratica. I “rivolgimenti mai avvenuti in tremila anni” di cui parlava Li Hongzhang a fine ottocento si riferivano proprio questa tendenza. “Anti-occidentalizione”, al contrario, significa opporsi con forza a questa tendenza.
L’anti-occidentalizzazione ha avuto nomi diversi in epoche diverse: all’inizio del Novecento si chiamava “sapere cinese come sostanza e sapere occidentale come mezzo”, negli anni Trenta “teoria della base cinese”, mentre nella Cina contemporanea si è parlato di “condizioni nazionali cinesi” o di “caratteristiche cinesi”. Ciò che accomuna queste espressioni, in ogni caso, è la finalità di difendere il regime politico e il sistema ideologico dominanti.
Certo è vero che nel corso della disputa fra occidentalizzazione e anti-occidentalizzazione i fautori della prima hanno spesso avuto la tendenza a imitare ciecamente l’Occidente, trascurando le condizioni reali della Cina. Le teorie dell’anti-occidentalizzazione, per contro, sono state spesso usate dalle autorità al potere come strumento per difendere i propri interessi e il proprio dominio, e in particolare per opporsi alla democrazia difendendo l’autocrazia.
Negli ultimi anni della dinastia Qing a opporsi all’occidentalizzazione erano i sostenitori della “confucianizzazione” (konghua 孔化). La disputa, allora, era fra “occidentalizzazione” e “confucianizzazione”. Poi dalla metà del Ventesimo secolo in entrambi i versanti ci sono state delle scissioni. Il versante della “confucianizzazione” si è diviso in una corrente confuciana tradizionale e in corrente moderna, quello dell’occidentalizzazione in un’“occidentalizzazione di stampo sovietico” e in un’“occidentalizzazione di stampo anglosassone”, delle quali la prima alla metà del Novecento ha acquisito la posizione dominante. Ciò che è successo, allora, è stato che una cultura occidentale (il marxismo-leninismo) ha rovesciato la cultura tradizionale cinese, mentre l’altra cultura occidentale (quella di stampo anglosassone) è stata trasformata nel suo polo negativo. Se negli anni Trenta la proposta di “occidentalizzazione totale” avanzata da Chen Xujing era stata largamente criticata, ora quella che si materializzava sotto l’egida dell’occidentalizzazione sovietica era davvero un’occidentalizzazione che sembrava totale. La cultura cinese tradizionale in ogni sua manifestazione era trattata come “scarto feudale”, “la via di Mencio e Confucio” era incessantemente criticata, l’idea che l’etica tradizionale potesse essere selettivamente ereditata era attaccata, mentre intanto imperava lo slogan “valorizzare il presente e svalutare l’antico (hou jin bao gu 厚今薄古), dove il presente da valorizzare era ovviamente quello di Marx, Lenin, Stalin e Mao, mentre l’antico da svalutare era la cultura tradizionale cinese. Dell’Unione Sovietica si imitavano il sistema economico, politico, tecno-scientifico ed educativo, da lì si importavano i testi scolastici, e perfino alcuni termini come Soviet, bolscevico eccetera entravano a far parte dell’uso comune venendo presi di peso dal russo. Intanto, proprio mentre la Cina realizzava la sua “sovietizzazione totale”, a Taiwan si procedeva in modo diametralmente opposto, preservando con vigore la cultura cinese tradizionale. Quando lo scorso dicembre ho visitato Taiwan, l’ho trovata decisamente molto più cinese della Cina.
Dagli anni Ottanta a oggi, la disputa tra l’occidentalizzazione e l’anti-occidentalizzazione ha avuto una nuova impennata. Solo che stavolta, in realtà, coloro che si oppongono all’occidentalizzazione sono quelli che sostengono l’occidentalizzazione di stampo sovietico. Sicché la disputa, stavolta, è in realtà la disputa fra occidentalizzazione di stampo anglosassone e occidentalizzazione di stampo sovietico, che è anche quella, in altre parole, fra “capitalismo” e “socialismo”. Lo scontro oramai è quello fra due tipi di occidentalizzazione: due “stranieri che si azzuffano sulla scena cinese mentre i cinesi, in platea, applaudono in parte per l’una in parte per l’altra forma di occidentalizzazione, azzuffandosi fra di loro. Dopo il crollo dell’URSS il sistema sovietico è stato rigettato da tutte le popolazioni sovietiche, eppure i fautori dell’occidentalizzazione sovietica in Cina ancora continuano ad attaccarcisi mani e piedi; ma non in virtù di un qualche loro attaccamento verso l’URSS, quanto invece per i vantaggi che gli vengono dalla difesa del sistema sovietico.
In Cina la scelta di perseguire nel periodo di Riforma e Apertura “l’occidentalizzazione totale” sul piano strumentale rigettando invece le conoscenze avanzate dell’Occidente sul piano istituzionale ha finito per creare un mostro: il “sistema dell’economia di mercato basato sul potere”. Wu Jinglian, fra i più importanti economisti nella Cina di oggi, ha definito tale sistema come il “capitalismo degli oligarchi” (quangui zibenzhuyi 权贵资本主义). Si tratta di una definizione abbastanza incisiva, che tuttavia male interpreta la natura del capitalismo, ed elude le responsabilità del potere. Perciò io ho sempre insistito per usare la formula “economia di mercato basata sul potere”, per indicare un sistema in cui gli abusi del potere e i vizi del capitalismo si combinano fra loro dando vita a tutte le nefandezze e a tutti i problemi della società cinese odierna, dei quali il più grande è quello dell’ingiustizia sociale. Non c’è ingiustizia più grande, infatti, che quella derivante dall’uso del potere pubblico per procacciarsi dei vantaggi personali. Una società ingiusta ovviamente non può essere armoniosa. E per questo Hu Jintao ha detto che dobbiamo costruire la “società armoniosa”. Dato però che a livello istituzionale non si è risolto il problema della giustizia sociale, il numero degli “incidenti di massa” è costantemente aumentato, sia per numero che per dimensioni. Che cosa si fa allora quando manca l’armonia sociale? Si ricorre alla polizia per mantenere la stabilità, finendo per far crescere, viceversa, l’instabilità. Il potere con il suo controllo e la sua manipolazione del mercato ha finito per distorcerne le leggi, creando allo sviluppo economico gravi problemi che hanno avuto fin qui ripercussioni molto pesanti.
È il risultato perverso del principio “il sapere cinese come sostanza, il sapere occidentale come mezzo” nella sua versione contemporanea.
Ora il Diciottesimo Congresso ha portato a un’intensificazione della lotta alla corruzione, e alla cattura di moltissimi corrotti a ogni livello della politica e dell’amministrazione. Forse sta perfino per rompersi il vergognoso tabù dell’“impunità del comitato permanente” (l’accordo illecito con cui le alte sfere del partito proteggono se stesse). Questa ovviamente è una cosa buona. Il problema, però, è che la corruzione di oggi ha una natura istituzionale, che trova la sua scaturigine, appunto, nel sistema dell’“economia di mercato basata sul potere”. È facile per il potere, in assenza di contrappesi, venire per così dire privatizzato, una fetta a testa, da coloro che lo detengono, con il risultato che esso finisce per controllare in modo privatistico il mercato, manovrando gli scambi e diventando esso stesso mercato. Da un lato abbiamo così il potere che manovra il capitale, dall’altro il capitale che compra il potere, dando vita a una politica del malaffare. Il potere, una volta che si è infiltrato nel mercato, crea situazioni di monopolio, diventando esso stesso la merce più rara e quindi la più preziosa: anche il più puro dei santi, in questo sistema, diventerebbe corrotto una volta preso il potere. Così, finché esisterà il sistema dell’“economia di mercato basata sul potere” i corrotti saranno come un’erba infestante, che più la tagli e più ricresce, sempre più florida e robusta. È così che è nata la classe dei “oligarchi” (quangui jieceng 权贵阶层), ovvero quelle persone potenti politicamente ed economicamente ai quali l’economia di mercato basata sul potere ha portato, e continua a portare, enormi vantaggi. È questo il gruppo che cerca di conservare il sistema, appoggiando il principio del “sapere cinese (ovvero il “sapere sovietico”) come sostanza” e ostacolando con ogni mezzo la riforma del regime politico.
E adesso torniamo alla risoluzione adottata nel Terzo Plenum del Diciottesimo Congresso del PCC. A una rapida scorsa, sul piano delle riforme economiche essa appare ancora più radicale di quelle di Deng Xiaoping, mentre sul piano delle riforme politiche sembra ancora più conservatrice. Potremmo definirla come il principio della “sostanza cinese e del mezzo occidentale” in versione potenziata. Così, se l’errore di Deng Xiaoping è stato quello di creare il sistema dell’economia di mercato basata sul potere, generando in Cina una società malata, la risoluzione del Terzo Plenum è destinata, ampliando e rafforzando l’errore di Deng Xiaoping, a rendere ancora più evidenti i vizi di tale sistema. Quali saranno le conseguenze? Il mio timore è l’avvento di ancor più ingiustizie sociali, contraddizioni ancora più acute, con conseguenze ancor più pericolose.
Una lettura più attenta, però, ha alleviato un poco le mie apprensioni. Nella risoluzione c’era infatti un passaggio che mi ha fatto brillare gli occhi, quello in cui ci si proponeva di “portare avanti la modernizzazione del sistema e della capacità di governance dello stato”. La parte che mi ha interessato di più è quella relativa alla “modernizzazione del sistema di governance”. … Questo perché un sistema di governancemodernizzato non può affatto essere il sistema autocratico perdurato in Cina per migliaia di anni, né il sistema sovietico a cui alcuni non intendono rinunciare, né quel sistema che alcuni definiscono con “caratteristiche cinesi” – ovvero il sistema dell’economia di mercato basata sul potere. Quale sistema sarebbe, allora? Può essere solo quello democratico-costituzionale, quello che tanti patrioti cinesi hanno agognato per un secolo. Altro non è, la “modernizzazione del sistema di governance”, che la ‘quinta modernizzazione”. Le Quattro Modernizzazioni (industria, agricoltura, difesa e scienza e tecnologia) avevano a che fare con il piano degli strumenti, la Quinta Modernizzazione ha a che fare con il piano istituzionale. È l’appello lanciato nel 1978 sul muro di Xidan che oggi, a trentacinque anni di distanza, finalmente ottiene una risposta!
… Se davvero l’obiettivo sarà quello di realizzare la “modernizzazione del sistema di governance dello stato”, usciremo finalmente dal vicolo cieco della “sostanza cinese e del mezzo occidentale”, e dalla trappola dell’economia di mercato basata sul potere, realizzando un sistema finalmente moderno. Sono forse un ingenuo o un sognatore a leggere la risoluzione del Terzo Plenum in questo modo? Mi auguro che non sia così.
Yang Jisheng, Da Il sapere cinese come sostanza… alla quinta modernizzazione PDF
Immagine: Chi riuscirà a vedere il mare, foto di Sharron Lovell
↑1 | Scritto a maggio 2014 e pubblicato su China News Digest. Per la traduzione del testo, vedi Marco Fumian, “Quali valori per la modernità occidentale”, nota 1. |
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↑2 | I “quattro principi fondamentali” sono i principi con cui il PCC nel 1979 riaffermava la supremazia del partito, l’insindacabilità del sistema socialista, la correttezza dell’ortodossia marxista-leninista e l’uso legittimo della violenza da parte dello stato contro i suoi contestatori, in opposizione alle istanze del movimento democratico che avevano portato alla richiesta della “quinta modernizzazione” (la democrazia). |