Un anno fa, il 13 luglio 2017, moriva di cancro, in un ospedale di Shenyang, Liu Xiaobo. Notissimo all’estero come intellettuale dissidente, premio Nobel per la Pace nel 2010, nel 2009 Liu era stato condannato in patria a undici anni di carcere per sovversione a causa del suo coinvolgimento nella stesura della Charta 2008 finalizzata a una riforma democratica del sistema politico cinese, solo l’ultima di una serie di condanne e periodi di prigionia inflitti sin dalla fine degli anni Ottanta, quando aveva lasciato gli Stati Uniti per sostenere e difendere gli studenti mobilitati nella primavera di Pechino nel 1989.
Nell’anniversario della morte – e per coincidenza anche in occasione della liberazione dagli arresti domiciliari e dell’arrivo della sua vedova, la poetessa Liu Xia, in Germania proprio in questi giorni – Sinosfere ha deciso di pubblicare un numero speciale dedicato a Liu. L’obiettivo del numero è quello di dare l’occasione di riflettere su Liu Xiaobo, collocandolo nel contesto concreto – politico e culturale – che ha inevitabilmente disegnato il suo spazio di pensiero e azione come intellettuale e attivista, ma anche restituendo la sua voce di uomo e di poeta al lettore italiano.
Nella Cina di quest’ultimo trentennio Liu Xiaobo è stata una figura al tempo stesso emblematica e singolare, nella sua coerenza, nel suo radicalismo, nella sua tragicità e nel suo ricomporre, attraverso la propria esperienza esistenziale, i molteplici ruoli di intellettuale, attivista e poeta. La sua complessità lo ha reso, inevitabilmente, una personalità anche controversa.
Scrittore e saggista prolifico, per almeno trent’anni Liu ha incarnato – agli occhi di chi fuori dalla Cina non dimentica quanto la crescita economica e le trasformazioni sociali degli ultimi decenni non si siano accompagnate a una sostanziale apertura democratica del suo sistema di potere – il combattente pacifico, ma mai sconfitto, per i diritti del suo popolo, pronto fino all’estremo sacrificio. In suo sostegno si sono mobilitati leader e organizzazioni internazionali, e le fotografie del suo volto sofferente e sereno – ancor più di quelle della sua sedia vuota a Oslo nel 2010 – hanno accompagnato e continuano ad accompagnare le mobilitazioni in memoria delle vittime di Tian’anmen e per la democrazia a Hong Kong e altrove nel mondo. Una fama che contrasta con la presunta o reale indifferenza, se non proprio fastidio, che ha accompagnato in patria la sua sorte, quasi fosse un corpo estraneo, un alieno che vive in un altro mondo, incapace dunque di farsi ascoltare dalla gran parte dei suoi concittadini, a loro volta inabili a provare almeno empatia per qualcuno condannato per le sue parole e idee. La riflessione di Marco Fumian, in questo numero, vuole dare conto, in fondo, di questa contraddizione. Analizzando il percorso intellettuale di Liu attraverso i suoi testi, letti tanto alla luce delle trasformazioni culturali di questi trent’anni quanto alle condizioni specifiche della parabola umana di Liu, il saggio guarda al significato, alle ragioni e ai limiti dell’occidentalismo di Liu, anche in prospettiva storica. Liu Xiaobo, d’altronde, è stato non solo il più noto e coerente di una generazione di intellettuali cinesi maturati negli anni Ottanta del secolo scorso, anni di grande apertura, non esente da ingenuità, verso le correnti filosofiche e culturali occidentali, ma anche l’ultimo esponente di una tradizione intellettuale provocatoria e iconoclasta, in cui lo sguardo lucido e sarcastico sui mali contemporanei della Cina si è accompagnato alle suggestioni di un altrove più immaginato che reale.
Se dunque è possibile leggere nel percorso di Liu i riflessi di un certo modo di essere intellettuale peculiare alla sua generazione, a renderlo diverso è stato, secondo Valeria Varriano, quell’”eresia della coerenza” che lo ha portato a seguire l’imperativo morale di rispettare i propri principi fino all’autodistruzione e al sacrificio. Una stessa eresia che ha finito per rafforzare, anche sul piano intellettuale, quell’isolamento fisico e sociale imposto dalle autorità. Offrendo al lettore la traduzione di un saggio di Liu Xiaobo, La filosofia del maiale, provocatoriamente critico verso la parabola degli intellettuali cinesi nel trentennio delle riforme economiche, Varriano riflette infine, nella sua introduzione al saggio, sul destino di Liu di essere, alla fine, un pensatore sconfitto, dove però la sconfitta – di nuovo l’incapacità di farsi ascoltare, ma anche di parlare ai suoi compatrioti – è anche l’unico modo per rimanere all’altezza dei propri principi morali.
L’esperienza umana di Liu Xiaobo – del suo dolore personale ma anche della sua capacità di fare proprio il dolore degli altri sconfitti, come le vittime e i genitori dei ragazzi morti a Tian’an men – echeggia implicitamente nella sua voce di intellettuale critico e dissidente. Ma si esprime pienamente attraverso la sua poesia, dove il senso di comunanza emotiva e affettiva con gli uomini e le donne perseguitati e uccisi dal potere si manifesta con forza drammatica e, al tempo stesso, in cui la sua personale tragedia del carcere, dell’isolamento, della sofferenza fisica viene sublimata attraverso le parole d’amore per la compagna Liu Xia. Nicoletta Pesaro ci consegna una selezione di poesie di Liu Xiaobo, pubblicate all’interno del volume da lei curato Elegie del Quattro giugno. Sono poesie che ci restituiscono l’universo dei pensieri e dei sentimenti dell’uomo ma anche il suo valore d’artista; e che in un tempo così prono all’oblio, ci richiamano al dovere del ricordo.
Laura De Giorgi
Immagine: commemorazione del Quattro Giugno a Hong Kong, foto di Nicoletta Pesaro