Postiamo, in questa nuova sezione di Sinografie chiamata Richiami, destinata a raccogliere interventi già pubblicati in altra sede, una presentazione della nostra rivista a firma di Marco Fumian comparsa su Inchiesta Online lo scorso 21 aprile.
Sinosfere nasce, innanzitutto, per colmare un vuoto editoriale, visto che non esisteva ancora, quando è stata concepita, una pubblicazione online in italiano interamente dedicata allo studio della società e della cultura cinese che non fosse rivolta a un ristretto pubblico accademico. Il progetto scaturisce dall’immediata intesa intellettuale che si è instaurata con Ester Bianchi, Laura De Giorgi e Nicoletta Pesaro quando si è parlato per la prima volta di creare assieme una rivista: lì per lì sono sorti dubbi, scetticismi sulla sua fattibilità, apprensione per la difficoltà dell’impresa e per il rischio di fare un buco nell’acqua, ma su tutto ha prevalso una convinzione: di una rivista così, oggi, ci sarebbe parecchio bisogno. Così sono seguite un po’ di chiacchierate – alcune via skype e altre davanti a qualche spritz – da cui Sinosfere ha preso agevolmente forma, nella sua impostazione generale. Poi si è trattato di pensare ai primi saggi, di coinvolgere il primo nucleo di collaboratori (fra i quali Amina Crisma, che ringrazio per averci offerto questo spazio), e infine, per quanto mi riguarda, di impratichirmi nell’arte dell’html per dotare la rivista di un’adeguata piattaforma digitale.
Vorrei precisare, però, che il vuoto editoriale di cui parlo è, in realtà, il riflesso di un più ampio vuoto strutturale che tende a investire la produzione del sapere in un piccolo stato nazionale come l’Italia all’epoca della globalizzazione. Come sappiamo, infatti, oggi le parole d’ordine dell’università sono valutazione e internazionalizzazione. Questa tendenza ha fatto sì che gli studiosi, in generale, siano spinti sempre di più a scrivere da un lato su pubblicazioni settoriali, rigorosamente accademiche, “referate” da cerchie di “pari”, e dall’altro in lingua inglese, nella speranza di dare a ciò che scrivono maggiori chances di riconoscimento accademico. Ciò mi sembra particolarmente vero per quanto concerne la sinologia, un po’ perché questa costituisce in Italia una branca ancora un po’ di nicchia, che non coinvolge ancora grandi numeri di interessati, la cui comunità accademica di riferimento si articola quanto meno a livello europeo, un po’ perché è inevitabile che studiosi proiettati nello studio di realtà culturali molto distanti siano più spontaneamente cosmopoliti. Ora tutto ciò in linea di massima è positivo, ovviamente. Ma è altrettanto vero che tale tendenza ha generato una bolla di illusione. Quante delle cose che pubblichiamo in inglese, nelle riviste di “fascia A”, negli atti dei convegni o nei Festschrift vengono veramente lette? Quanto riescono davvero a contribuire alla diffusione della conoscenza? E viceversa: quanto spazio resta, date queste premesse, per la produzione di un sapere sulla cultura cinese, in Italia e in italiano, che sappia essere rigoroso e originale, e nello stesso tempo parlare a un pubblico di non addetti ai lavori? Non molto, mi pare.
Sinosfere, pertanto, nasce come spazio di aggregazione per consentire agli studiosi di storia, cultura e società cinese di uscire dagli steccati specialistici dell’accademia per rivolgersi a un pubblico più ampio, puntando a scrivere delle cose che possano ampliare le conoscenze non solo della propria comunità specialistica, ma anche della società in generale. Si tratta, in buona sostanza, del tentativo, forse un po’ donchisciottesco, di portare la sinologia in quella che un tempo si sarebbe chiamata “sfera pubblica”, come peraltro suggerisce il nome stesso della rivista. Sinosfere parte dal presupposto che la Cina si è ormai avviata a occupare nel nostro mondo una posizione sempre più centrale, e che la sua presenza si appresta a farsi nella nostra vita sociale sempre più pervasiva e rilevante. Sarebbe giunta l’ora, di conseguenza, che cercassimo di capire un po’ meglio tutti quanti quali sono i modi di pensare, di parlare e di agire che maggiormente improntano la vita sociale nella Cina di oggi, provando a comprendere i significati e i valori che essi esprimono. È qui che il sapere sinologico avrebbe i mezzi per fare la differenza.
E qui uso la parola “sinologia” con una certa sfrontatezza, pur essendo consapevole delle contestazioni che sono state talora rivolte a questo termine, proprio perché voglio fare delle precisazioni sul suo significato. È chiaro, innanzitutto, che per “sinologo” non possiamo ingenuamente intendere una persona che “conosce” la Cina, un qualcuno che la Cina la “capisce”, come se al mondo ci fossero pochi privilegiati in grado di comprendere la Cina – i sinologi appunto – mentre tutti gli altri brancolano nel buio. La “Cina”, va da sé, non è un oggetto discreto e circoscritto del sapere, che o lo sai o non lo sai, come se fosse la formula di una molecola. “Cina”, semmai, è un’astrazione con cui ci mettiamo a designare, per comodità, un intreccio eterogeneo di luoghi, tempi, gruppi umani, inclinazioni psicologiche e sociali, testimonianze simboliche di varia forma, sui quali ognuno può sviluppare delle conoscenze, a volte in modo semplicemente intuitivo, a volte più consapevolmente teorizzate. Né voglio suggerire che solo chi studia e insegna la Cina all’università, come nel nostro caso, abbia conoscenze adeguate e titolate per parlare con autorevolezza della Cina. Oggi a occuparsi della Cina sono in molti: ci sono giornalisti, consulenti ed esperti di ogni ambito che ci informano in vario modo di quanto accade in Cina, analizzando in presa diretta gli andamenti dell’economia, le decisioni della politica, i progressi tecnologici, i problemi dell’ambiente, le novità dei costumi sociali e perfino le manifestazioni culturali che prendono piede giorno per giorno nel paese del “Dragone” – come amano definirlo i nostri media. Certo ce ne sono alcuni che in Cina sono appena sbarcati, che la Cina la conoscono pochissimo, che non parlano una parola di cinese, ma ci sono anche tanti professionisti che in Cina hanno vissuto per anni, che parlano un ottimo cinese o quantomeno stanno cercando di impararlo, che hanno una conoscenza decisamente approfondita delle dinamiche sociali, o delle “regole latenti” – per citare liberamente il titolo di un famoso libro cinese di qualche anno fa – che orientano l’esistenza delle comunità cinesi. Ma non è questo il punto. Il punto, piuttosto, è che se vogliamo capire significati e valori – se vogliamo, cioè, tentare di interpretare i fattori culturali che segnano gli orientamenti sociali della Cina nel loro progredire storico – non possiamo prescindere da un bagaglio di saperi, che definiamo appunto “sinologici”, senza i quali risulta davvero difficile elaborare interpretazioni valide e fondate dell’universo culturale cinese. Questo bagaglio è costituito da tre componenti fondamentali:
1) Capacità di leggere i testi, scritti e orali, direttamente in lingua originale, il che vuol dire prima di tutto saper accedere senza mediazioni alla “parola” degli attori interessati, senza dovere per forza dipendere da interpretazioni preformate (quanti, ancora oggi, ci informano sulla Cina informandosi a loro volta quasi del tutto su materiali prodotti in lingua inglese?), ma vuol dire anche saper decifrare le particolari strategie retoriche, articolazioni discorsive, stili di ragionamento, categorizzazioni concettuali attraverso cui i significati trovano in cinese le loro forme peculiari.
2) Conoscenza dei processi storici in cui si formano – e si trasformano – le idee, le rappresentazioni e le narrazioni esaminate, insieme ai particolari campi di forze sociali in cui acquistano senso e funzioni. Ciò naturalmente vale tanto per l’indagine del passato tradizionale quanto, e forse soprattutto, per lo studio del presente moderno, dato che la “modernizzazione” non è, come vorrebbero alcuni, la semplice sostituzione dei valori autoctoni della tradizione con uno stock di valori standard “universali” da esportare di peso urbi et orbi, bensì consiste, come dimostra la tortuosa storia della modernità cinese, nel processo attraverso cui le idee della modernità occidentale sono selettivamente appropriate e creativamente trapiantate sui suoli autoctoni attraverso numerose (e dolorose) pratiche di innesto nel substrato della cultura tradizionale. Ciò che a noi interessa, come ho già scritto altrove, è interpretare soprattutto la contemporaneità, ma la contemporaneità è “un prodotto storico, un bacino volubile in cui convergono, s’intrecciano o confliggono i molteplici e contrastanti percorsi della storia; cosicché per conoscere la Cina di oggi, per capire le sue peculiari articolazioni di significato, occorre in primo luogo ripercorrerne le specifiche traiettorie culturali, situate nel passato recente come in quello remoto, ricostruendo le loro formazioni, evoluzioni e trasformazioni, le loro interazioni, aggregazioni e ibridazioni con sistemi culturali di altra provenienza.” È questo l’altro motivo per cui abbiamo scelto di chiamare la rivista Sinosfere, dato che ci piace immaginare, ispirandoci al concetto di “semiosfera” elaborato da Juri Lotman per descrivere le dinamiche di funzionamento delle culture, l’universo culturale cinese come una rete di galassie in movimento (delle “sinosfere”, appunto) che “se da un lato nelle loro traiettorie storiche e nei loro ripetuti incontri con ciò che è nuovo e differente danno vita a rappresentazioni sempre originali, pure continuano a essere connesse a matrici comuni che tendono a improntare, sebbene non determinandoli del tutto, i significati che tali rappresentazioni veicolano.”
3) Familiarità con specifici ambiti del campo di studi sinologici, indispensabile non solo per aumentare quantitativamente le informazioni in possesso rispetto a precisi aspetti della storia e della cultura cinese, ma anche per accrescere la consapevolezza che le nostre conoscenze sulla Cina tendono a coagularsi e a orbitare attorno a specifiche tematiche, interessi e problematiche, su cui si formano opinioni e visioni che suscitano dibattiti e divisioni. Consapevolezza, cioè, che la “sinologia” è essa stessa una costruzione discorsiva, figlia di una specifica prospettiva storico-geografica (quella dell’Occidente moderno) che, attraverso la formazione di una tradizione concettuale, struttura in modo stabile il nostro modo di parlare della Cina. Solo avendo chiaro questo background, in effetti, possiamo riflettere su come viene prodotto il nostro sapere sulla Cina, interrogando le griglie interpretative con cui di solito ne organizziamo la conoscenza ed eventualmente combattere gli stereotipi più ricorrenti. Scopo di Sinosfere, a questo proposito, è anche quello di provare a elaborare categorie concettuali per comprendere la società cinese più in linea con le strutture reali che la organizzano, seguendo una tradizione inaugurata in Cina dal sociologo Fei Xiaotong.
Questi, in sintesi, sono gli strumenti che vorremmo provare a offrire pubblicando Sinosfere, cercando da una parte di coinvolgere studiosi e osservatori che si interessano alla Cina da prospettive e con sguardi differenti e dall’altra di aggregare un pubblico magari non vastissimo ma interessato fatto di persone che oggi, nell’approcciarsi alla Cina, ricercano qualcosa che va oltre la semplice informazione. Sappiamo che l’impresa è tutt’altro che semplice. Viviamo in un’epoca piena di stimoli alla creatività e alla conoscenza, ma anche di grande frammentazione e dispersione delle energie intellettuali, che rende quanto mai facile per un progetto nascere, ma quanto mai difficile crescere.
Immagine: Opere infrastrutturali nel cuore della Cina, foto di Sharron Lovell