Sinologi nella nuova era? Raccolgo la sollecitazione a riflettere partendo dalle fondamenta del pensiero e del dialogo: le parole. Anzitutto, seguo l’orizzonte limitato della mia vita. Più di trent’anni fa ero matricola a Ca’ Foscari. Un corso di storia della Cina prevedeva anche lo studio delle basi della storiografia, perché, per capire l’oggetto di un ambito disciplinare, è necessario conoscere il metodo usato per pervenire a quella conoscenza. La mia riconoscenza è grande per questo. Grazie a Marc Bloch, Georges Duby e Federico Chabod ho iniziato ad avvicinarmi a un metodo storico che ha nella lingua uno strumento, non un fine. Sono una storica piuttosto che una sinologa. La sinologia, per me, non è una disciplina onnicomprensiva di tutto ciò che riguarda il mondo sinico, ma lo studio filologico della lingua cinese. Poi ci facciamo prendere dalla fretta o da un bisogno di aggregazione, o da chissà che altro, e usiamo questa parola in senso lato. Talvolta quest’idea degenera in senso opposto, e ci si improvvisa sinologi senza conoscerne la lingua, sembra che si possa scrivere di storia della Cina senza sapere il cinese (cosa accadrebbe se provassi a scrivere una storia dell’impero romano senza usare fonti in latino?). Mi paiono due facce di una medesima medaglia, che talvolta cercano di incastrare la Cina entro modelli interpretativi dedotti a partire dai cambiamenti storici nella parte nord-occidentale del globo terreste.

Arrivo ora più vicino. Siamo davvero in una nuova era per la Cina? È una nuova era quella di Xi Jinping (习近平, 1953-)? Questo è quanto lui vuole mostrare al mondo, nuovi sogni, nuove vie, nuova Cina, finanche una sorta di nuovo culto di Confucio. Ma queste presunte “novità” le abbiamo già sentite, ancora rimbomba la loro eco nelle nostre orecchie, se siamo disposti ad ascoltarla. Sotto la superficie di parole usate in modo apparentemente rinnovato, possiamo intravvedere ricostruzioni fittizie che ricordano tradizioni inventate alterando la realtà storica, di quel tanto che basta per cucirle come vestiti apparentemente nuovi e luccicanti su una realtà vecchia (Eric Hobsbawm avrebbe avuto qualcosa da dire in merito). Mutatis mutandis, l’aspetto della novità è apparente nella Nuova Cina, abbagliandoci con l’uso delle innovazioni tecnologiche, ma l’agire umano segue direzioni già note, le scelte si basano su dinamiche già viste.

Non è un caso che Mao Zedong 毛泽东 riscontrasse nelle “contraddizioni” una delle parole chiave della società in cui viveva. Dopo di lui, nella Repubblica Popolare Cinese [RPC] sono state inventate antinomie di prim’ordine. Ne citerò solo due, la cui luce illumina bene l’orizzonte politico di questo Paese.

Anzitutto il “socialismo con caratteristiche cinesi”, che è la formula che dal 1982 cercava di ricondurre l’impossibile ossimoro politico-economico tra prospettiva socialista e prospettiva capitalista (per usare categorie generali) a una specificità locale. “Questo” socialismo diveniva così soggetto unico e irripetibile, sottratto alle critiche basate su criteri generali e capace di suscitare una forte adesione popolare nazionalista.Questa formula viene poi trasformata durante il viaggio al Sud di Deng Xiaoping 邓小平 nel 1992, segnando la fine della sostanziale chiusura del Paese seguita alla repressione violenta dei movimenti di protesta nella primavera 1989. Da qui, la RPC ha intrapreso la via di una “economia socialista di mercato”, indirizzandosi chiaramente sulla strada della partecipazione al mercato globale. In questa formula contraddittoria troviamo la positività di un governo che cerca ancora di prevalere sull’economia, e non viceversa. Questa conciliazione teorica delle contraddizioni si scontra però con la sua applicazione nella realtà, dove spesso appare scarrocciare verso dinamiche capitalistiche.

Considero ora brevemente la seconda “contraddizione”: la “dittatura democratica del popolo”. Questa sembra piacere molto a Xi Jinping, la si trova assai spesso citata nei mass media negli ultimi anni. Porta anzitutto una tautologia: se è democrazia, non può essere che del “popolo” (δῆμος). Prendo in prestito da Sabino Cassese una definizione di democrazia, data di recente: “partecipazione dei cittadini al potere; concorrenza tra forze politiche; scelta, lasciata ai cittadini, tra più offerte politiche; poteri contrapposti; contrappesi. Sono significati diversi che si sommano nella moderna concezione di democrazia”. O ancora possiamo vedere come ne parlava Norberto Bobbio nel 1985: “Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni collettive: 1) tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente; 2) la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza”. Spostiamo ora lo sguardo sulla Cina di Xi, riusciamo a trovare qualcuno di questi fattori che concorrono a definire una democrazia? Troviamo un popolo che governa? Troviamo decisioni prese dopo discussioni libere negli organismi rappresentativi centrali? O troviamo una oligarchia che cerca di tenere sotto controllo un popolo e la sua vitalità?

Di democrazia e dei suoi pregi e difetti non si è smesso di parlare, si dibatte ampiamente di fattori di crisi e di potenzialità, di degenerazioni e di necessità.1)Da Tzvetan Todorov (I nemici intimi della democrazia, 2017) a Nadia Urbinati (Liberi e uguali, 2019), a Amartya Sen (Il tenore di vita, 1991), a María Zambrano (Persona e democrazia, 1958), per citare solo pochi significativi esempi. Di democrazia nel mondo sinico anche si parla ampiamente, cercando radici e fondamenta, arrivando a chiamare in causa Huang Zongxi (黄宗羲 1610-1695), dibattendo su difficoltà nel percorso passato e su un futuro più o meno praticabile.2)L’articolo su Huang Zongxi è di Elton Chan (“Huang Zongxi as a Republican: A Theory of Governance for Confucian Democracy”, Dao, 17 (2018), pp. 203-218). La bibliografia rischierebbe di diventare sterminata, mi accontenterò di citare tre testi fondamentali: Mireille Delmas-Marty, Pierre-Etienne Will, La Chine et la démocratie (2007); John Fuh-sheng Hsieh, Confucian Culture and Democracy (2014); Weatherley R., Making China Strong. The Role of Nationalism in Chinese Thinking on Democracy and Human Rights (2014).

La democrazia è stata di recente strattonata qua e là anche nella narrazione sulla pandemia di Covid-19. Abbiamo assistito a un’anomalia consistente: analisi soddisfatte di una presunta superiore efficacia di un governo totalitario nel contrastare eventi complessi come la pandemia che sta sensibilmente alterando tutte le nostre vite, incorrendo però in due errori di metodo. Il primo consiste nell’aver dimenticato di considerare gli altri casi di successo da parte di Paesi democratici. Si può forse affermare che proprio in Asia, Corea del Sud, Giappone e Taiwan, tutte democrazie, non siano riuscite a tenere la situazione sotto controllo? Nelle lezioni di metodo storico viene ribadito che esiste un principio di verità cui lo storico aspira, attraverso l’analisi di tutta la realtà, non solo di quanto riesce a dimostrare la verità che noi scegliamo come assiomatica.Il secondo errore di metodo ha a che fare con l’affidabilità dei dati forniti dal governo della RPC. Non si tratta solo o tanto della mancata comunicazione dei problemi sanitari riscontrati all’interno del Paese prima del gennaio 2020, quanto della indisponibilità a interagire con organismi indipendenti per verificare lo stato delle cose all’interno del Paese. I dati riferiti di esami condotti di decina di milioni in decina di milioni, ricordano troppo da vicino quelli comunicati durante il Grande Balzo in Avanti per non lasciare più che perplessi.Come alla fine degli anni Cinquanta, il metodo di raccolta dei dati è dirimente. E il fatto che non ci venga dato modo di conoscerlo, ci chiama alla responsabilità di interrogarci. I proclami di Xi di voler collaborare col mondo, non lasciano poi spazio a una reale cooperazione, se non con invio di pochi medici all’estero, che paiono più uno strumento di propaganda, che un aiuto reale. Aiuto consistente potrebbe essere far partecipare medici da altri Paesi alle attività di ospedali in prima linea nella cura efficace del Sars-Cov-2, e fornire le informazioni relative ai contagi nell’autunno 2019. Non trovo perciò credibile che la situazione sia sotto controllo in modo perfetto quasi ovunque nel Paese, con poche eccezioni che riempiono di stupore. Come in agosto, a Hong Kong. Alcuni casi di contagio, quel tanto che è bastato per rimandare di un anno le elezioni lì previste all’inizio di settembre. E poi procedere all’eliminazione di potenziali antagonisti arrestandoli.

Inevitabilmente Hong Kong riporta in modo prepotente la questione della democrazia, ripetutamente. Osserviamo i fatti. Deduciamo la realtà a partire dai fatti, è il metodo che deve seguire uno storico. Il metodo di approvazione della legge sulla sicurezza di Hong Kong mostra l’assenza di democraticità nel processo legislativo: una Commissione definisce una legge per la quale l’Assemblea Nazionale ha dato indicazioni di massima. Diremmo che la Repubblica Italiana è democratica se le leggi fossero scritte nelle Commissioni dopo aver ricevuto indicazioni di massima dall’Aula, senza poi essere nuovamente sottoposte al vaglio dei parlamentari tutti?

Ancora, Hong Kong mostra il volto non democratico del Partito Comunista Cinese [PCC] e del suo governo per un’altra ragione. Negli ultimi tempi, non vi erano più solo proteste variamente disorganizzate, ma sono stati formati sindacati alternativi cui stava andando un consenso popolare che il Partito non vuole condividere. Il PCC sa bene quanto importanti siano cambiamenti come questi, la sua storia deve molto al movimento sindacale iniziato a Shanghai nel maggio 1925. Ma il Partito Comunista Cinese non vuole condividere alla pari l’esercizio del potere con altre associazioni e gruppi. Ce lo ha illustrato anche Pun Ngai per le lotte operaie a Shenzhen nel 2018, lì vicino a Hong Kong.

Per una Cina davvero nuova, ci vuole fiducia nei propri concittadini da parte del Partito. Ci vuole che il PCC lasci andare una eredità che non è sua, quella della tutela politica per istruire il popolo (xunzheng 训政) associata a Sun Yat-sen, le cui radici possiamo vedere nel sistema degli esami imperiali civili e nell’assolutismo burocratico di età imperiale. Anche il governo di Taiwan è riuscito a lasciarsi alle spalle quest’eredità, quando negli anni Ottanta ha aperto al multipartitismo. L’alternanza democratica si è mostrata sostenibile, quando le tendenze dittatoriali non schiacciano i germogli della partecipazione responsabile da parte dei cittadini. Questo è stato possibile a Taiwan, dove la convivenza tra Partito Nazionalista e Partito Democratico Progressista ha mostrato di essere feconda con una coesistenza vitale tra democrazia e base culturale confuciana. Questo sarebbe possibile anche nella RPC, dove proprio quella base culturale confuciana è oggetto di recupero dall’inizio del XXI secolo.

Per una Cina davvero nuova, tra l’altro, ci vuole il coraggio del PCC e del governo della RPC di trasformare i suoi Istituti Confucio. Li facciano diventare, come Goethe Institut o Alliance Française o Instituto Cervantes per esempio, centri di diffusione della lingua e della cultura cinese autonomi, senza bisogno di incardinarli nelle istituzioni universitarie con cui rischiano di creare interferenze. Lascerebbero così le università italiane libere di stringere accordi di scambio con istituzioni parigrado della RPC, limitando la supervisione delle istituzioni governative, come fanno le libere università nel mondo. Altrimenti non si vedrà quella linea, talvolta inconsapevolmente non percepita, che distingue la libertà di pensiero e di espressione dall’autocensura, e Xi Jinping sarà sempre più simile ad Aisin Gioro Hongli 爱新觉罗弘历 (Qianlong 乾隆, 1711-1799).

Gli ultimi tempi ci fanno capire che PCC e governo non hanno bisogno di conquistare militarmente il mondo. Il condizionamento, la censura e l’autocensura sono già evidenti, e strumenti abilmente usati. Parole usate per riflettere su questa sollecitazione in Sinosfere già lo mostrano. Due schieramenti opposti, nemici l’uno dell’altro. Qui sta il problema di metodo di fondo. Chi ha idee diverse dalle mie non è un nemico. Chi ha idee diverse dalle mie non è un antagonista, qualcuno da ricondurre alle mie posizioni o da eliminare. Non c’è bisogno di fronti contrapposti. Bisogna solo chiamare le cose coi loro nomi, e agire responsabilmente di conseguenza. In quelle lezioni di metodo storico che ho iniziato a seguire decenni fa, era ribadito che esiste un principio di verità cui lo storico/studioso aspira quando osserva l’oggetto dei suoi studi. Se l’oggetto è cambiato, o se è cambiata la sua prospettiva, deve riconoscerlo. Se c’è qualcosa che contrasta con la tesi che vorrebbe argomentare, deve comunque considerarla e rivedere la sua tesi, non forzare la realtà storica nella sua tesi. Ma questo non deve portare a dividersi in fazioni, non è questo il senso di una vita dedita allo studio, alla ricerca, all’insegnamento. Piuttosto,“to make progress, we have to stop treating our opponents as enemies”, come ha detto qualcuno di recente.

La situazione resterà invariata? Si indirizzerà verso una perdita di dialogo e verso l’esercizio di un potere dittatoriale sempre più stretto, come mostrano purtroppo le tendenze degli ultimi tempi a omologare le diversità, incluse quelle delle “minoranze etniche” in Mongolia Interna, Xinjiang e Tibet? Se le risposte saranno positive, penso che a noi studiosi del mondo sinico resti una sola scelta, parafrasando il Critone, “vivere bene e onestamente e giustamente”, ossia non cooperare con chi approfondisce sempre più la negazione della libertà, con chi sta conducendo su una brutta strada quel Paese meraviglioso. Sarà dunque necessario ragionare insieme su come attuare questa non-cooperazione.

Monica De Togni è professore associato di storia della Cina presso l’Università degli Studi di Torino. I suoi interessi di ricerca sono indirizzati prevalentemente verso i cambiamenti istituzionali e sociali a livello locale nel periodo della transizione dall’impero Qing alla Repubblica di Cina, e verso l’accoglienza data alla proposta pacifista nella Cina del XX secolo, partendo dalla figura di Mohandas Karamchand Gandhi.

References
1 Da Tzvetan Todorov (I nemici intimi della democrazia, 2017) a Nadia Urbinati (Liberi e uguali, 2019), a Amartya Sen (Il tenore di vita, 1991), a María Zambrano (Persona e democrazia, 1958), per citare solo pochi significativi esempi.
2 L’articolo su Huang Zongxi è di Elton Chan (“Huang Zongxi as a Republican: A Theory of Governance for Confucian Democracy”, Dao, 17 (2018), pp. 203-218). La bibliografia rischierebbe di diventare sterminata, mi accontenterò di citare tre testi fondamentali: Mireille Delmas-Marty, Pierre-Etienne Will, La Chine et la démocratie (2007); John Fuh-sheng Hsieh, Confucian Culture and Democracy (2014); Weatherley R., Making China Strong. The Role of Nationalism in Chinese Thinking on Democracy and Human Rights (2014).