Accogliendo l’invito della presente rivista a sviluppare insieme a colleghi sinologi e ricercatori interessati alla Cina contemporanea un dialogo sui “sinologi della nuova era”, questo testo propone una breve riflessione sul ruolo della stampa italiana nel fornire prospettive e informazioni sulla Cina di oggi e nel contribuire a dar forma a un immaginario sul Paese da parte dell’opinione pubblica italiana.
Questo testo si sviluppa su due direzioni: la prima propone una panoramica sugli agenti coinvolti nel portare avanti la copertura mediatica e il dibattito su temi legati alla Cina contemporanea; la seconda suggerisce spunti di riflessione sul potenziale coinvolgimento di esponenti della sinologia italiana nell’attività mediatica, enfatizzando l’importanza della conoscenza della cultura e della lingua cinese da parte di chi fa informazione.
La stampa italiana e la Cina oggi
Il servizio di Milena Gabanelli per la sua rubrica Data Room trasmesso lo scorso 27 Settembre su Corriere.it e il TG La7 costituisce solo l’ultimo di una serie di episodi che mettono in luce alcune criticità di un’analisi giornalistica che, pur condividendo una serie di fonti e dati accurati, sembra sottovalutare l’importanza di tenere in considerazione la specificità delle dinamiche socio-culturali e di avvalersi di fonti in lingua originale che si rivelano invece fondamentali per gettare luce sulla complessità della Cina contemporanea.
Il contributo di Gabanelli è interessante per almeno tre motivi. Il primo è stato evidenziato da Lucrezia Poggetti, ricercatrice presso l’istituto di ricerca Merics: Poggetti sottolinea come sia un bene che anche i telegiornali abbiano iniziato a ospitare delle analisi sulla Cina contemporanea. Il secondo motivo è che il servizio di Gabanelli ha contribuito ad animare un dibattito nel mondo del giornalismo e dell’accademia in merito alle modalità di copertura mediatica e alla selezione degli argomenti oggetto di tale copertura da parte degli stessi media. Il terzo motivo è riconducibile all’importanza di una prospettiva diacronica per interpretare le trasformazioni nella percezione da parte dell’opinione pubblica italiana sulla Cina contemporanea che si sta affermando come imprescindibile interlocutore geopolitico in una prospettiva globale. Se infatti a maggio un sondaggio dell’Istituto affari Internazionali e del Laboratorio Analisi Politiche Sociali riportava come le modalità di gestione dell’emergenza sanitaria COVID-19 da parte di Pechino venissero considerate un modello da seguire, già a settembre un rapporto dello European Council of Foreign Relations evidenziava un ritorno a una diffidenza verso la Cina da parte dell’opinione pubblica europea e italiana in particolare. Quest’ultimo dato è stato nuovamente ridimensionato dalle rilevazioni del rapporto Pew Research Center a inizio ottobre secondo cui su un campione di 14 paesi tra le maggiori economie avanzate solo l’Italia registrava un minimo riscontro positivo sulla gestione del COVID-19 da parte della Cina: il 51% degli intervistati aveva infatti un’opinione positiva, il 49% era invece allineato a un parere negativo più pronunciato negli altri paesi (61%).
L’esempio della visita di Xi Jinping a Roma nel marzo 2019
Da queste ultime riflessioni si può dedurre come il ruolo dei media nella selezione degli argomenti trattati e nella scelta del taglio interpretativo con cui presentare tali argomenti sia centrale nell’influenzare l’opinione pubblica italiana, alimentando un determinato immaginario sulla Cina contemporanea. Un ulteriore esempio a supporto di tale riflessione può essere costituito dall’analisi della copertura mediatica della visita di Xi Jinping in Italia nel marzo 2019. Il primo dato di questa ricerca metteva in luce come, nonostante la portata storica dell’evento, i quotidiani più prolifici, almeno in termini di numero di articoli pubblicati a riguardo, fossero testate regionali (Il Messaggero e la Sicilia) e con un forte taglio economico (Il Sole 24 Ore). Il secondo aspetto è invece di natura contenutistica: numerosi articoli che affrontavano l’argomento della visita di Xi Jinping a Roma erano caratterizzati da un approccio narrativo e riportavano aneddoti specifici (ma parziali) finalizzati a portare avanti una narrazione sulla Cina come Paese focalizzato sull’importanza del controllo e della sorveglianza: sia il Giornale che il Giornale di Sicilia ad esempio hanno sottolineato il dispiegamento di forze dell’ordine per garantire la sicurezza di Xi durante la sua visita in Italia alludendo all’eccesso di controllo e spiegamento di forze dell’ordine sia a Roma che a Palermo. A supporto di questa tesi è opportuno citare lo studio di David Craig che già nel 2003 sottolineava come il ricorso ad aneddoti debba essere necessariamente associato a un’analisi di natura etica. Il terzo aspetto è legato alla presentazione di immagini evocative e simboliche per fornire un’analisi mediatica dell’evento (qui dettagli). È verosimile che questo tipo di copertura mediatica tendenzialmente focalizzata su un resoconto aneddotico più che su un’analisi approfondita dei contenuti della discussione possa aver contribuito a diffondere un sentimento ambivalente verso la possibilità di rafforzare la reciprocità nelle relazioni politiche ed economiche con la Cina. Un esempio particolarmente calzante in tal senso è offerto dalla descrizione della first lady Peng Liyuan paragonata a una giovane Elisabetta II durante la sua visita a Palazzo Colonna a Roma. Un espediente che rischia di suggerire un parallelismo tra l’imperialismo storico britannico e le più recenti velleità imperialiste della leadership cinese.
Il problema delle fonti (e della lingua)
Pur evitando generalizzazioni, è legittimo ritenere che un più diretto coinvolgimento di esponenti della sinologia avrebbe contribuito a fornire una lettura degli eventi più approfondita e articolata facendo leva non solo sulla consultazione di fonti in lingua ma anche su una più puntale interpretazione di rituali e dinamiche socioculturali legate a questa visita di stato.
Se da un lato il coinvolgimento di profili sinologici in ambito giornalistico appare marginale, dall’altro molti esponenti del giornalismo italiano che si occupano di Cina risultano poco inclini a consultare e incorporare fonti in lingua cinese. Le fonti che vengono consultate e a cui si fa esplicito riferimento sono spesso tratte da pubblicazioni di testate giornalistiche riconducibili al contesto mediatico europeo, e soprattutto anglosassone, o riprese da fonti ufficiali cinesi in lingua inglese: tra le più consultate si ricordano il liberale South China Morning Post e Caixin, ma anche organi di stampa più vicini alla voce ufficiale come Global Times e China Daily.
Questo secondo aspetto merita una riflessione approfondita che non si limita ovviamente al contesto mediatico ma che può essere allargata a diversi ambiti del sapere che riguardano la Cina. Già nel 2000 Curran e Park suggerivano l’importanza di una riflessione in merito alla necessità di “de-occidentalizzare” lo studio dei media denunciando l’egemonia culturale sia contenutistica che linguistica dei media del mondo anglosassone. A distanza di vent’anni, il problema linguistico sembra non essere stato del tutto superato come conferma il recente studio di Suzina su Media Culture and Society intitolato “English as lingua franca. Or the sterlization of scientific world”. Sarebbe auspicabile che si affermassero più iniziative del calibro di Chinese Storytellers, e con un profilo più ampio, New Bloom, New Naratif, che negli ultimi anni hanno provato a dare voce a giornalisti e scrittori troppo spesso relegati ai margini dei media mainstream.
Un’interpretazione corretta delle fonti, almeno nel contesto cinese, passa quindi da almeno due binari linguistici che riflettono due agende mediatiche diverse. Già nel 2016 Alessandra Lavagnino notava come a margine della riforma del sistema dei media in Cina avviata fin dall’ultimo decennio del XX secolo, testate giornalistiche, radiofoniche e televisive cinesi fossero chiamate a raggiungere un pubblico sempre più vasto composto da un’audience cinese residente nella Cina continentale ma anche all’estero, oltre che da un pubblico internazionale. Più recentemente Bettina Mottura ha dimostrato empiricamente come i contenuti riportati dai media cinesi in lingua originale siano caratterizzati da un’impronta più burocratica e istituzionale, mentre gli stessi argomenti presentati a un pubblico internazionale e quindi non riportati in cinese ma in inglese (o in francese), presentino delle scelte lessicali più dirette e finalizzate a consolidare la narrazione che si vuole diffondere sulla Cina e a celebrare gli impegni assunti dalla dirigenza. La selezione delle fonti e la capacità di comprendere e interpretare le sfumature del linguaggio politico sono le premesse fondamentali per poter comprendere tutte le sfaccettature della stessa notizia riportata in lingue diverse.
Un ulteriore limite nell’analisi della comunicazione mediatica in Cina è legato al fatto che escludendo Il Corriere, La Repubblica, Il Sole 24 Ore, la RAI, AGI e pochi altri organi di stampa, è sempre più raro trovare dei corrispondenti in loco. Anche in questo caso, il problema non riguarda esclusivamente l’Italia ma rivela una crisi economica del giornalismo diffusa anche fuori dai nostri confini nazionali.
Il caso italiano ci pone di fronte a un paradosso. Secondo una ricerca su database FACTIVA in effetti è possibile notare come negli ultimi 5 anni sia stato registrato un aumento consistente in termini di articoli focalizzati sulla Cina, a fronte di quasi 400 000 articoli pubblicati. Nonostante l’oggettivo interesse crescente sulla Cina, è tuttavia possibile notare come le testate giornalistiche che propongono un’estesa copertura mediatica sul Paese hanno spesso un carattere locale e tendono a non ampliare l’analisi mediatica sulla Cina contemporanea in un contesto globale e internazionale. Queste criticità pongono dei limiti oggettivi nel poter formare un’opinione pubblica consapevole della complessità del ruolo della Cina come interlocutore per l’Italia ma anche per il resto del mondo.
Alcune idee per il futuro
Alla luce di queste considerazioni emergono almeno tre spunti di riflessione che potrebbero rafforzare e valorizzare il potenziale del sinologo di oggi almeno nel settore dell’informazione.
In prima istanza emerge l’importanza che il sinologo partecipi attivamente al processo di copertura mediatica degli organi di stampa sulla Cina e quindi la necessità di stabilire un dialogo basato sulla reciprocità tra mondo del giornalismo e sinologia che potrebbero completarsi a vicenda. Il ruolo fondamentale del sinologo non si limiterebbe chiaramente alla competenza linguistica ma interesserebbe anche l’approfondimento di aspetti socioculturali, fondamentali per adottare un approccio conoscitivo interdisciplinare sulla Cina contemporanea.
In seconda battuta, è auspicabile che il sinologo sia anche coinvolto più direttamente nel dibatto giornalistico anche nei mezzi di informazione mainstream attraverso interviste, talk show, editoriali per garantire una diffusione delle informazioni più trasversale e diretta a un bacino d’utenza più ampio.
Il sinologo contemporaneo ha anche maturato una certa familiarità con l’uso dei nuovi media e dei social media cinesi che ospitano dibattiti e discussioni su temi legati alla realtà contemporanea, adottando un linguaggio in continua evoluzione, spesso caratterizzato dall’uso di metafore, giochi di parole e allusioni che possono essere interpretate solo grazie a una conoscenza profonda del contesto linguistico e culturale e a un esercizio costante della lingua viva. La capacità di analizzare i contenuti pubblicati nei social media possono rivelarsi importanti per gettare luce sui temi focali del dibattito pubblico e per misurare l’opinione pubblica generalizzata, fornendo in questo modo chiavi interpretative per comprendere questioni rilevanti della società cinese contemporanea ancora troppo spesso descritta come monolitica e caratterizzata da stereotipi. Questa narrativa è spesso alimentata dall’approccio giornalistico dei quotidiani a tiratura regionale che dedicano sempre più copertura alla Cina.
In ultima istanza è importante ricordare che una copertura mediatica più profonda e articolata sulla Cina se da un lato potrebbe rivelarsi funzionale a plasmare un’opinione pubblica italiana più preparata e consapevole, dall’altro potrebbe anche svolgere un ruolo chiave nel coinvolgere nel dibattito mediatico e nella fruizione dei contenuti mediatici anche la comunità cinese che vive in Italia, gettando in questo modo anche le premesse per un modello di integrazione efficace e trasversale. Di particolare importanza in questo senso sono i recenti contributi di Stefania Stafutti e Valentina Pedone capaci di dare voce a una serie di iniziative organizzate dalla comunità sino italiana durante il lockdown tra febbraio e giugno 2020. Sul fronte dei media italiani vanno segnalati e accolti con favore i lavori di Huang Miaomiao per La Nazione e l’Huffington Post; il palinsesto di Radio Italia Cina e i recenti articoli di Jada Bai e Angelo Ou su China Files.
Restituendoci un immaginario sulla Cina contemporanea che tenga conto di complessità e specificità socio-culturali, la sinologia può quindi contribuire a formare un’opinione pubblica consapevole, equilibrata e variegata che possa mettere da parte letture ideologizzate, falsi miti, forzature distopiche, pregiudizi interpretativi e narrazioni monolitiche su un Paese che è in constante evoluzione, che svolge un ruolo fondamentale nello scenario geopolitico globale e che è destinato a diventare un interlocutore imprescindibile con cui è auspicabile imparare a confrontarsi, dialogare e convivere. La sinologia fornisce preziose chiavi interpretative per aiutarci a comprendere la Cina di oggi, mettendoci in condizione di raccogliere consapevolmente le sfide e le opportunità che il nuovo assetto geopolitico mondiale in continua evoluzione ci porrà domani.
Immagine: Silk Road.
Gianluigi Negro è Ricercatore a tempo determinato (B) presso l’Università di Siena, Dipartimento di Scienze della Formazione, Scienze Umane e della Comunicazione Interculturale (DSFUCI). Dopo aver conseguito il dottorato in Scienze della Comunicazione presso Università della Svizzera italiana (USI), facoltà di Scienze della Comunicazione, ha condotto progetti di post-dottorato finanziati dalla Sino-Swiss Science and Technology Research Cooperation presso gli istituti di Giornalismo e Comunicazione della Peking University e della Tsinghua University. La sua ricerca si focalizza sullo sviluppo storico di internet e del sistema dei media in Cina.