Nei due decenni da quando ho iniziato a occuparmi di questioni cinesi, ho avuto modo di osservare varie oscillazioni nel dibattito italiano sulla Cina. Sulla base della mia soggettiva – e sicuramente discutibile – percezione, credo sia possibile dividere questo ventennio in tre fasi. Nei primi anni duemila, nel periodo compreso tra l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e le Olimpiadi di Pechino, ricordo una discussione molto limitata e con una forte enfasi su temi legati ai diritti umani, ad esempio la situazione in Tibet, la repressione del Falun Gong, le proteste di contadini e lavoratori. Nonostante si trattasse di un periodo di straordinario dinamismo per la società civile cinese, la (scarsa) attenzione dei media italiani si concentrava in maniera sproporzionata sugli aspetti dittatoriali del sistema politico cinese, restituendo un’immagine della Cina semplicistica se non caricaturale. Allo stesso tempo, la sinologia italiana era largamente orientata su se stessa e rivolta al passato.

La crisi finanziaria globale del 2009 ha contribuito come poco altro a cambiare i termini del dibattito. Con l’economia italiana in profonda crisi, l’idea di un presunto ‘modello cinese’ come panacea da contrapporre al declino economico e politico dell’Occidente ha iniziato a prendere piede tanto in Italia quanto all’estero. È stato allora che quegli elogi della Cina come sistema politico meritocratico ed efficiente, modello di sviluppo miracoloso, e nucleo fondante di valori incentrati sull’armonia e sull’esercizio della responsabilità descritti da Marco Fumian si sono fatti più comuni. Questo riassestamento discorsivo ha permesso alle autorità cinesi di accumulare il capitale politico necessario per promuovere l’offensiva propagandistica degli anni successivi, centrata attorno all’idea di ‘raccontare bene le storie della Cina’ e tradottasi a sua volta in importanti successi per Pechino, tra i quali nel caso italiano spicca la firma nel marzo del 2019 del controverso accordo tra Cina e Italia sulla Belt and Road Initiative. Pur giocando un ruolo più pronunciato rispetto al passato nel dibattito pubblico, in questo periodo la sinologia italiana ha dovuto confrontarsi con i dilemmi derivanti dal conflitto tra la propria coscienza critica e preoccupazioni pragmatiche legate alla nuova configurazione istituzionale, al rischio di perdere accesso alla Cina e al rinnovato potere del governo cinese quale fonte di finanziamento in un contesto di crescente carenza di fondi per l’università, non da ultimo attraverso i tanto discussi Istituti Confucio.

Oggi, un anno e mezzo dopo le dichiarazioni trionfalistiche che hanno accompagnato la firma dell’accordo del marzo 2019, ci troviamo ancora una volta di fronte a un dibattito completamente differente. La gestione iniziale della pandemia, la crisi a Hong Kong e la detenzione in massa della popolazione Uigura in Xinjiang – unite all’attiva demonizzazione della Cina da parte di certi settori della classe politica in diversi paesi occidentali per ragioni elettorali, Stati Uniti in primis – hanno contribuito a una nuova percezione della Cina come minaccia politica e ideologica, se non addirittura esistenziale. Questo sta avendo ripercussioni non solo sul piano astratto, ma anche a livello pratico, non da ultimo per le comunità cinesi all’estero, che in quest’ultima ondata di sinofobia si sono trovate oggetto di pesanti attacchi. Come spiega Marco Fumian, la domanda da porsi a questo punto è: che ruolo può giocare la sinologia in tutto questo?

Per azzardare una risposta è necessario fare una premessa. Tanto la visione della Cina come modello quanto quella della Cina come minaccia hanno una caratteristica in comune: sono entrambe concezioni eccezionaliste nella maniera in cui descrivono la Cina come un sostanziale ‘Altro’ funzionante secondo logiche diverse da quelle del resto del mondo. Sono anche visioni essenzialiste nel fatto che riducono la Cina a una serie di presunte caratteristiche riconducibili a un non precisato ‘carattere nazionale’ che si suppone emergano in determinati tratti del sistema politico e della società cinese. Se partiamo da quest’assunto, la necessità più impellente va individuata non tanto nel superamento delle dicotomie o nell’individuazione di una via di mezzo tra due opposti (che in realtà non sono tali), quanto piuttosto nella creazione di una nuova consapevolezza sul ruolo e sulla posizione della Cina all’interno di un sistema globale oggi governato da logiche eminentemente capitalistiche.1)Su questo bisogno ho scritto in maniera più articolata con Nicholas Loubere in “What about Whataboutism? Viral Loads and Hyperactive Immune Response in the China Debate”Made in China Journal, vol. 5, no. 2: 18–-30. In questo, la sinologia – con il suo bagaglio di conoscenze linguistiche, storiche, culturali e sociali sulla Cina che, contrariamente a quanto suggerisce Fabio Lanza nel suo intervento, non scarterei – ha un ruolo importante da giocare.

Prendiamo ad esempio una delle situazioni che – probabilmente più all’estero che in Italia – hanno portato all’ultima oscillazione nel pendolo delle discussioni sulla Cina: il caso dei campi di rieducazione in Xinjiang, in cui dal 2017 a oggi il governo cinese ha rinchiuso centinaia di migliaia di cittadini uiguri. Inizialmente, le autorità cinesi hanno negato che questa detenzione di massa stesse avendo luogo, poi hanno giustificato le proprie azioni in termini di lotta all’estremismo islamico e alla povertà. Le reazioni internazionali non sono mancate, in uno spettro che va dalle posizioni negazioniste che hanno preso piede in certi ambienti della sinistra più o meno estrema a quelle di coloro che nei campi vedono la dimostrazione della malvagità assoluta del Partito Comunista Cinese e una conferma della disumanità del comunismo più in generale. Ciò che spesso è mancato in questo dibattito è il riconoscimento di come i campi non esistano nel vuoto.

Sebbene l’attuale situazione in Xinjiang abbia radici profonde nella soppressione dell’identità Uigura da parte della maggioranza Han e in discorsi sul ‘lignaggio di sangue’ emersi in epoca Maoista, la storia non finisce certo qui. I campi in Xinjiang sono anche un’estensione di certe logiche e pratiche coloniali che risalgono all’epoca del colonialismo europeo, quando intere popolazioni indigene furono brutalmente represse e concentrate in riserve. In aggiunta, gli originali ‘campi di concentramento’ stabiliti dalle potenze coloniali occidentali erano inestricabilmente collegati alle ultime innovazioni tecnologiche del periodo, quali il filo spinato e le armi automatiche, ed erano presentati al pubblico come parte di una missione civilizzatrice mirata a educare razze e culture che si supponevano inferiori. In questo senso, le autorità cinesi stanno non solo seguendo questa lunga tradizione massimizzando i ‘benefici’ degli ultimi progressi nelle tecnologia di sorveglianza, ma anche attingendo a piene mani da discorsi consolidati da tempo.

I campi in Xinjiang non sono monadi neppure nel contesto del mondo di oggi.2)Questo tema sarà affrontato in maggiore dettaglio nel volume Xinjiang Year Zero, da me curato con Darren Byler e Nicholas Loubere. Il libro è in uscita per ANU Press nel 2021. È possibile identificare collegamenti tanto discorsivi quanto materiali tra ciò che sta succedendo nella Cina nordoccidentale e certe tendenze globali. Dal punto di vista discorsivo, è stato ampiamente dimostrato come le autorità cinesi per giustificare le proprie azioni in Xinjiang si siano appropriate di discorsi internazionali sull’anti-terrorismo promossi dagli Stati Uniti per legittimare la propria Guerra al Terrore. Dal punto di vista materiale, le complicità tra la Cina e vari attori in occidente sono ancora più evidenti. Non solo aziende cinesi e multinazionali sono profondamente coinvolte nello sviluppo delle tecnologie della sorveglianza utilizzate in Xinjiang, ma prodotti che emergono dalle fabbriche annesse ai campi trovano regolarmente circolazione nelle catene di fornitura globali. Se c’è poco da stupirsi del fatto che aziende occidentali nel business dei mercenari sono attive in Xinjiang, ben più problematico è scoprire il ruolo delle università internazionali nello sviluppare le tecnologie che le autorità cinesi stanno oggi utilizzando per rafforzare la sorveglianza in Xinjiang.

Lo stesso metodo analitico qui adattato al caso del Xinjiang può essere applicato a varie controversie al centro dell’attuale dibattito sulla Cina. Evidenziare questi collegamenti non significa affermare che ‘tutto il mondo è paese’ e assolvere il governo cinese di ogni responsabilità, tutt’altro. Si tratta piuttosto di ricordare a se stessi e al pubblico come oggi sia più necessario che mai elaborare una critica sistemica che si estenda oltre il singolo contesto nazionale – un compito tanto più urgente di fronte alle sfide globali che ci troviamo ad affrontare, ad esempio in materia di ambiente e giustizia sociale, e per cui la sinologia occupa una posizione centrale in un momento in cui la Cina, agli occhi di molti, è diventata l’incarnazione di tutti i mali.

Alla luce di tutto ciò, non posso che essere d’accordo con Marco Fumian quando propone un maggior ruolo per la sinologia nel creare e diffondere informazione sulla Cina. A mio avviso, il sinologo di oggi ha il dovere di prendere una posizione pubblica. Questo non significa esprimersi ‘contro’ o ‘a favore’ della Cina – come una certa visione semplicistica della questione vuole – quanto piuttosto spendersi per illuminare certe dinamiche e le sottostanti complicità, anche quando questo porta a conclusioni che mettono in discussione confortanti ‘certezze’. Ugualmente, non credo sia necessario per il sinologo scegliere tra il condurre la propria attività di ricerca e il giocare un ruolo nell’influenzare i termini del dibattito sulla Cina. Al contrario, in una situazione pericolosa come quella attuale, sono convinto che la sinologia abbia il dovere di reclamare un ruolo attivo in questa discussione attraverso ogni mezzo disponibile. Solo in questo modo sarà possibile andare oltre le varie derive essenzialiste ed eccezionaliste e arginare la crescente ondata di sinofobia. Se non i sinologi, chi dovrebbe prendere una posizione? E se non ora, quando?

Ivan Franceschini è Postdoctoral Fellow presso l’Australian Centre on China in the World, The Australian National University, si occupa di attivismo e lotte sul lavoro in Cina e Cambogia. Dirige assieme a Nicholas Loubere il trimestrale Made in China Journal.

Immagine: Groviglio

 

References
1 Su questo bisogno ho scritto in maniera più articolata con Nicholas Loubere in “What about Whataboutism? Viral Loads and Hyperactive Immune Response in the China Debate”Made in China Journal, vol. 5, no. 2: 18–-30.
2 Questo tema sarà affrontato in maggiore dettaglio nel volume Xinjiang Year Zero, da me curato con Darren Byler e Nicholas Loubere. Il libro è in uscita per ANU Press nel 2021.