La seguente intervista è stata originariamente pubblicata su Made in China Journal lo scorso 10 settembre con il titolo “Hong Kong in Revolt: A conversation with Au Long-Yu” e in seguito pubblicata il 20 ottobre in italiano dalla rivista online DINAMOpress per la traduzione dall’inglese di GioGo. Si ringraziano DINAMOpress e il traduttore per il permesso di ripubblicare questo testo su Sinosfere.
Da un anno e mezzo, Hong Kong è in agitazione, con una nuova generazione di cittadini giovani e politicamente attivi mobilitati per protestare contro la stretta di Pechino sulla città. In Hong Kong in Revolt: The Protest Movement and the Future of China, 2020, Au Loong-Yu, influente intellettuale di sinistra della città, ripercorre lo sviluppo dei movimenti di protesta nella sua città natale nell’ultimo ventennio, collocandolo nel più ampio contesto delle tendenze politiche nella Cina continentale e oltre. Pubblicato dopo la promulgazione di una nuova, draconiana Legge sulla Sicurezza dello Stato che ha effettivamente segnato un nuovo stadio nel giro di vite, il libro è un’ottima occasione per riflettere sugli avvenimenti dei mesi scorsi, liberarsi di certi miti e, auspicabilmente trarre qualche insegnamento.
Ivan Franceschini: riconsiderando le proteste dell’ultimo anno e mezzo, e ancora prima gli altri movimenti di massa che si sono sollevati nella città nel decennio scorso, è possibile individuare un filo che unifica tutte le istanze delle agitazioni? In altre parole, di che si è trattato?
Au Loong-Yu: Si possono riassumere tutte le maggiori proteste dell’ultimo decennio con una sola parola: “delusione”. Sempre più la popolazione di Hong Kong è stata delusa dalle vuote promesse di Pechino, “a governare Hong Kong sarà il suo popolo”, il “suffragio universale”. Nel 2010, messo alle strette dall’istanza di suffragio universale avanzata dal Campo Democratico (Minzhupai), Pechino concesse di mettere a elezione diretta altri cinque seggi del Consiglio Legislativo (LegCo). La concessione tuttavia fu respinta dal Campo Democratico perché l’aumento dei seggi a elezione diretta avrebbe dovuto essere controbilanciata da uno stesso numero di seggi a elezione indiretta, onde facilitare le manovre politiche pechinesi. La Legge Fondamentale di Hong Kong, ammesso che Pechino non la riveda, resterà valida per cinquant’anni. Ma nel 2010 era già trascorso un quarto del cinquantennio e di suffragio universale ancora non si parlava. Da allora, Pechino ha scatenato un’offensiva ancora più violenta contro l’autonomia di Hong Kong. Una prima volta nel 2012, quando convertì l’“istruzione nazionale” obbligatoria per istituire la quale s’era mosso il governo di Hong Kong in una specie d’ ‘identità cinese’. Seguì l’imposizione del cinese mandarino come lingua veicolare nei corsi di lingua cinese, che significò il divieto per gli studenti del posto di usare la loro lingua madre, il cantonese. Gli studenti ne furono disorientati, e i più radicali, guidati da Joshua Wong, fondarono il gruppo Scholarism, Alleanza contro il progetto di educazione nazionale e morale per opporsi alla nuova politica. Anche le famiglie si organizzarono a loro volta in appoggio agli studenti. Entrambe le campagne riuscirono a bloccare l’applicazione della legge. L’offensiva pechinese servì a convincere i democratici più radicali e la nuova generazione della necessità di azioni pronte e risolute per imporre il suffragio universale, ciò che poi portò al Movimento degli Ombrelli del 2014.
Per la prima volta nella Hong Kong del dopoguerra s’assistette a un episodio di disobbedienza civile di massa e pacifica, fiducioso all’inizio di poter essere appoggiato dalla popolazione locale e di essere ascoltato da Pechino. In effetti il movimento fu sostenuto ampiamente dalla popolazione, ma Pechino si rifiutò di ascoltarlo, spezzando il cuore a molti, che s’accorsero che i loro 79 giorni di mobilitazione non avevano portato a niente. Dietro operava un’amara delusione anche nei confronti di Pechino. Un misto di rabbia, demoralizzazione e disperazione s’impadronì della nuova generazione. Ma non ci sarebbe stata una seconda ondata di proteste se Pechino nel 2019 non avesse lanciato un’altra offensiva, questa volta con la Legge sull’Estradizione. Le proteste, con milioni di partecipanti e la gioventù all’avanguardia, furono più ampie, talvolta anche violente, e molto più durature del movimento del 2014, essendo continuate per otto mesi, fino allo scoppio dell’epidemia. Si sapeva bene che la legge implicava la fine dell’autonomia di Hong Kong, donde lo slogan “battaglia campale” (终局之战), ripetuto spesso nel corso delle proteste. Qui la delusione ha preso una nuova dimensione. L’ultima decade ha assistito a un crescente disincanto verso il Campo Democratico, prima la gioventù, seguita da una porzione considerevole dei tradizionali sostenitori della democrazia radicale, gente di classe medio-bassa, che prima credeva nella moderazione – non facciamo troppa pressione su Pechino, la disobbedienza civile è troppo radicale, ecc. Gran parte del Campo Democratico si è talmente allineata con la politica elettorale (elezioni parziali) da perdere il polso di quanto pensa la gente comune a proposito di Pechino e da perdere anche il gusto dei confronti in piazza. La prova scadente data nel 2014 li ha fatti disprezzare dai giovani. La rivolta del 2019, largamente spontanea e priva di dirigenza, è stata la risposta alla loro incapacità di suscitare un movimento dal basso. Sanziona la fine della vecchia politica e la (difficile) nascita di una politica nuova.
IF: la nuova Legge sulla sicurezza dello Stato è stata considerata la fine della Hong Kong come la conoscevamo, la drammatica conclusione dell’ultima, straordinaria stagione di mobilitazione popolare. Pensi che questo pessimismo sia giustificato? Non c’è nessun risvolto positivo?
ALY: Penso che, se una forte dose di pessimismo, almeno sul breve periodo, è giustificata, lo è più per le ragioni della sconfitta che per la sconfitta in sé. Siamo stati sconfitti semplicemente da un enorme squilibrio di potere – in questo confronto non potremo mai stare alla pari di uno Stato monolitico. La stragrande maggioranza dei dimostranti, per quanto simpatizzassero, restarono da parte a guardare i “valorosi” (勇武派) che si confrontavano fisicamente con la polizia, senza partecipare agli scontri. Una ragione c’è. Anche la gente comune intuisce facilmente che la rivoluzione in una sola città è un assurdo. L’avanguardia del movimento, la “generazione del 1997” non ha avuto una risposta a questo. Qui s’annida la maggiore debolezza della rivolta — la mancanza d’una visione strategica. Il movimento è stato molto abile sul piano tattico, non altrettanto su quello strategico. Secondo me, il movimento di Hong Kong dovrebbe cercarsi gli alleati non solo all’estero ma soprattutto nella Cina continentale. Dobbiamo anche riconoscere che la libertà a Hong Kong è una lotta di lunga durata. Ciò implica che il movimento di Hong Kong non è stato capace di allentare le tensioni nelle sue relazioni con Cinesi del continente, e deve trovare il modo di non alienarsene le simpatie, inclusi gli immigrati dalla Cina a Hong Kong.
Nel libro discuto della grande azione di protesta lanciata il 7 luglio 2019, con lo scopo di avvicinare i visitatori dal continente e guadagnarli alla causa. Gli attivisti che organizzarono la marcia s’aspettavano appena 2.000 dimostranti e se ne videro arrivare 230.000. Andarono alla stazione del treno ad alta velocità che collega Hong Kong e l’entroterra incontro a quelli che arrivavano dalla Cina. La polizia s’aspettava gli scontri, invece fu sorpresa di vedere i dimostranti avvicinarsi amichevolmente ai viaggiatori. Dunque possiamo dire che la ricerca di alleanze sul continente era allora intenzione di molti. In generale però, mentre per il movimento è stato naturale cercare alleati in Occidente e in Giappone, non altrettanto lo è stato con il continente, nella convinzione che i primi sarebbero stati molto più potenti degli altri. Invece è evidente che qui non c’è da scegliere fra gli uni e gli altri, dobbiamo assicurarci il sostegno di entrambi. Ma in generale il movimento ha fallito nella ricerca di un’alleanza consapevole con la popolazione e i gruppi della Cina continentale. Se l’avesse fatto, indipendentemente dal risultato diretto, ne avrebbe tratto beneficio – meno nel senso di un successo immediato, quanto nel senso che avremmo evitato errori come quello di tollerare gli attacchi della destra locale contro i Cinesi, considerati in blocco sostenitori del PCC e avremmo alimentato la possibilità di solidarizzare sul lungo periodo. Pechino si è buttata su quest’occasione per bollare tutto il movimento come anticinese, in modo da allontanare i Cinesi del continente dal movimento e distoglierli dal simpatizzare con i dimostranti di Hong Kong. In una certa misura c’è riuscito.
Il movimento aveva una strategia fiacca, una “visione di Hong Kong” espressa nello slogan “isolamento fra Cina e Hong Kong” (gong zung keoi gaak 港中区隔). Dietro questo slogan opera un sentimento filo-occidentale. Tutto il male viene da Pechino e tutte le simpatie per la nostra lotta contro Pechino provengono dall’Occidente e dal Giappone – questo è stato il comune sentire. In questo slogan è completamente assente un ruolo per la Cina continentale. È un sentimento che ha la sua ragion d’essere, ma finché non poggerà su un’analisi seria, senza confini chiari ben tracciati, giocherà a favore della destra, che ha cercato, talvolta con successo, d’incanalare certe proteste in una direzione potenzialmente sinofobica e apertamente filoamericana. Se non formuleremo una strategia chiara per la ricerca di alleanze anche con la Cina continentale, il popolo di Hong Kong resterà isolato. Le ragioni per l’ottimismo di medio periodo risiedono nel fatto che il popolo nella lotta impara.
Dal 2014 il popolo di Hong Kong, per la prima volta, è stato ampiamente politicizzato e si è mobilitato per riprendersi quello che gli apparteneva. Da un punto di vista storico, questo è appena il primo stadio di una nuova era di risveglio popolare. Lo dicono le “cinque richieste” del movimento. Dal punto di vista della politica di Partito, anche se la destra l’ha detto più esplicitamente, non ci sono grandi Partiti d’opposizione, né i loro né altri. Questo implica che tutte le tendenze politiche visibili nella rivolta del 2019 sono tutt’altro che consolidate. La lotta per una linea di condotta progressista è ancora di là da venire.
IF: Col senno di poi, pensi che ci sia mai stata la possibilità che Pechino allentasse la pressione e desse spazio alle richieste del popolo di Hong Kong? Che lezioni trai da tutta l’esperienza?
ALY: Non avallo l’idea che Pechino desideri sinceramente adeguarsi ai desideri del popolo di Hong Kong nella sua gestione della politica interna. Quello che ha fatto dalla riconsegna di Hong Kong nel 1997 lo dimostra chiaramente. Sei anni dopo la riconsegna tentò d’imporci la Legge sulla Difesa Nazionale. Noi la sconfiggemmo. Poi non successe niente per un po’, ma solo perché l’offensiva pechinese assunse forme meno evidenti. Oltre dieci anni fa m’accorsi di due cose che simbolizzavano la nuova offensiva. La prima, Pechino cominciò a organizzare picchiatori suoi per confrontarsi col Falun Gong qui, mentre in precedenza l’aveva semplicemente ignorato. In effetti, non molte persone erano attratte da quella religione, ma col rapido aumento di arrivi dal continente a Hong Kong, Pechino sembrava adesso preoccupata che i nuovi venuti potessero convertirsi; da qui il cambio di tattica. La seconda, Pechino cominciò a coordinarsi con il suo apparato di Partito a Hong Kong e i governi locali del continente per fondare centinaia se non migliaia di “associazioni di compaesani” (tongxianghui 同乡会), per tenere legati quelli che migravano dal continente a Hong Kong. Sono organizzazioni che si dimostrarono cruciali per procacciare voti ai partiti filopechinesi. Il Campo Democratico sperava di addolcire l’autocrazia pechinese tramite relazioni più strette, invece successe che a cambiare fummo noi. Parimenti, le nazioni occidentali hanno assunto “impegni” con Pechino, nella speranza di poter dare alla Cina continentale una spinta verso la liberalizzazione politica tramite un aumento dei commerci. In linea di massima, io non ci ho mai creduto. Per me, quello di Pechino è un regime estremamente rigido nella sua versione con “caratteristiche cinesi”, in quello che essenzialmente è un ritorno alla cultura politica della Cina imperiale. Il discorso di Xi Jinping del 2017 sul potere che dev’essere trasferito al popolo tramite i “geni rossi” (ovvero la seconda generazione rossa) è una manifestazione di questa prassi. Il libro di Fei-Ling Wang del 2017 The China Order: Centralia, World Empire, and the Nature of Chinese Power coglie in pieno gli aspetti premoderni del regime, ma si dimentica di quelli moderni del PCC, cioè la sua ambizione a modernizzare la Cina, ovvero, nelle parole di Mao, a «sorpassare prima la Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti» (chao Ying gan Mei 超英赶美). Dietro la fede nei valori premoderni c’è una cosa molto moderna, molto concreta, cioè l’interesse fondamentale del governo cinese, che combina il potere coercitivo dello Stato, armato con le armi e le tecnologie più moderne, con il potere del suo capitalismo industriale e finanziario. Vi riesce agendo simultaneamente su due piani, la legge e le procedure opache della burocrazia, che finiscono sempre per prevalere sulla prima. I governanti lo trovano un regime molto funzionale per i loro interessi. Dai quadri del governo centrale a quelli periferici, i funzionari di Partito si arricchiscono grazie a esso. Ma più fanno così, più accumulano panni sporchi che hanno bisogno di tenere celati. Questa è di per sé una ragione per cui i funzionari di Partito non tollerano la dissidenza. Il Partito esige l’edificazione sul continente di uno Stato orwelliano ed è imperativo che esso s’estenda a Hong Kong.
Sono convinto che la rigidità del nucleo del Partito-stato, formatosi e induritosi attraverso la sua particolare storia rivoluzionaria, il suo ritorno alla cultura imperiale e il suo interesse verso uno Stato totalitario metta fuori discussione ogni autoriforma. In conclusione, per avere una valutazione meno erronea del regime di Pechino, invece di guardare solo alle apparenze del PCC e dei suoi massimi dirigenti in carica, dobbiamo avere un punto di vista olistico accompagnato da un approccio storico e che sappia articolare le relazioni fra diversi elementi. Il lato buono della mia narrazione è che, nel corso dell’ulteriore modernizzazione della Cina, il PCC ha modificato anche i rapporti di forza dentro la Cina. Negli ultimi 70 anni, tutte le altre classi e gruppi sociali entro i confini cinesi sono stati alla mercé di un Partito-stato monolitico, che apparentemente non è cambiato, mentre invece la sua composizione attuale è profondamente mutata. Inoltre, un’ampia porzione della classe alta e media cinese, la nuova classe operaia e i lavoratori sfruttati nelle fabbrichette sono economicamente connessi anche loro col mercato globale. La rottura delle relazioni fra Cina e Stati Uniti mette lo Stato orwelliano davanti a una prova difficile, rendendo la situazione più fluida. Potrebbe una nuova forza politica nazionale emergere in questa fluidità e cimentarsi con il nòcciolo duro del PCC? Qui sta l’arcano di questo nuovo stadio.
IF: Nel tuo libro, spieghi con grande enfasi a che cosa non mirava la mobilitazione. Un paio di fraintendimenti che tu cerchi di chiarire sono che la protesta era razzista, perché aveva a bersaglio i Cinesi del continente, e che avanzava la richiesta dell’indipendenza. Come hanno fatto queste idee a radicarsi nell’opinione pubblica e come dovrebbero essere respinte?
ALY: Innanzitutto, dobbiamo ricordarci che i media hanno un potere enorme nella formazione della cosiddetta “opinione pubblica”. Lo scorso anno, all’inizio della rivolta, mentre alcuni sventolavano la bandiera dell’indipendenza, altri dimostranti, che non erano a favore, cercarono di convincerli a smetterla, ricordando loro che il movimento era per “le cinque richieste”, non per l’indipendenza. In qualche caso la persuasione funzionò. Tuttavia, sia i media occidentali sia quelli filopechinesi si focalizzarono sui manifestanti che sventolavano la bandiera dell’indipendenza – sia pure per ragioni opposte – ignorando il fatto che la maggioranza dei dimostranti non faceva altrettanto. È così che una minoranza diventa potente tramite i media, mentre la maggioranza, scoraggiata, finì per chiudersi nel silenzio durante le manifestazioni successive. La cosa bella della rivolta è che è stata fatta di centinaia di proteste grandi e piccole, molto diverse e contraddittorie, unificate solo dalle “cinque richieste” e da nient’altro. Solo una minoranza di dimostranti prese potenzialmente di mira gli immigranti e i nuovi arrivati, ma erano molto di meno degli altri e s’affermarono solo in alcune aree molto periferiche, dunque non poterono rappresentare il movimento. Però è vero anche che la maggioranza delle persone che non approvavano i localisti di destra scelsero regolarmente di non affrontare l’argomento. Secondo me, senza una forza progressista organizzata che lotti coscientemente per un’identità inclusiva per Hong Kong, le cose sfortunatamente continueranno ad andare così.
IF: Tu critichi a fondo una certa idea affermatasi presso alcuni circoli di sinistra in occidente: che le dimostrazioni di Hong Kong siano state di destra e manipolate dall’imperialismo straniero. Qual è la tua risposta a queste insinuazioni?
ALY: Così come ai media piace accendere i riflettori sui dimostranti che sventolano la bandiera dell’indipendenza, fanno lo stesso con quelli che sventolano la bandiera americana. Poca gente però s’accorse che veniva sventolata anche la bandiera della Catalogna e che una volta si tenne una manifestazione a favore dell’indipendenza catalana. Le forze filoamericane cercarono d’impedire che si tenesse, perché «la Spagna è un alleato degli Stati Uniti», ma la loro tesi venne respinta. Tuttavia queste notizie passarono largamente inosservate. L’anno scorso mi trovavo in una riunione a Berlino dove uno dei partecipanti condannò il movimento perché era manipolato dagli Stati Uniti, riferendosi ai dimostranti che sventolavano la bandiera americana. Io obiettai che anche la condanna poteva essere manipolata, questa volta dai media, dato che accettava acriticamente l’enfasi dei media su una minoranza con la bandiera americana. Il Campo Democratico ha sempre avuto forti legami con le classi dirigenti statunitensi e britanniche, ma nelle rivolte più recenti è stato marginalizzato. Erano una forza filoamericana organizzata, ma piccola. Il movimento di massa non è guidato da nessuno. Gran parte dei giovani con la bandiera americana non fanno parte di nessun Partito politico, sono generalmente neofiti nel movimento e cercano soltanto un sostegno all’estero. Ciò detto, il problema con la rivolta dell’anno scorso è stato che i dimostranti in maggioranza erano completamente all’oscuro della contrapposizione “destra-sinistra”’, nel loro mondo è tutto appiattito sulla visione del mondo “o Pechino o noi”. Per questa ragione, accettano l’aiuto straniero da qualunque parte provenga, senza neanche chiedersi se chi lo presta sia “un vero amico”. Questa carenza cognitiva ha fatto occasionalmente sembrare i dimostranti una corrente a favore di Trump, che è un’esagerazione dei media. Comunque sia, dobbiamo essere consci di un altro aspetto della discussione sulle “forze straniere”. I governi occidentali, capitanati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, sono stati gli unici a essere stati accettati come interlocutori credibili dal PCC unicamente a causa del loro coinvolgimento nella Legge Fondamentale. La legge specifica nel dettaglio che la popolazione di Hong Kong è autorizzata a conservare la legislazione britannica, ha diritto al passaporto inglese e perfino ad assumere stranieri come pubblici ufficiali, dai bassi livelli a quelli più alti (fuorché la massima dirigenza), ivi compresi giudici stranieri ecc. Questo dovrebbe dare agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna una leva potente, almeno per i 27 anni che rimangono prima della scadenza della Legge Fondamentale, a meno di future revisioni. Con la Legge sull’Estradizione, Pechino ha rinnegato nientemeno che gli impegni sanciti nella Dichiarazione Congiunta Sinobritannica e nella Legge Fondamentale. Io non ho mai avallato questi due documenti. Di fatto, la popolazione di Hong Kong è sempre stata esclusa dalle negoziazioni riguardanti il suo destino, ma se Pechino vuole decolonizzare il lascito coloniale a Hong Kong, lo dovrebbe sostituire con una migliore protezione dei diritti umani e onorare la sua promessa di suffragio universale nella città, non già rimpiazzarlo con un sistema legale ancora peggiore e annichilire l’autonomia della città. Il governo statunitense non è veramente amico nostro, Pechino è il nostro vero nemico. Le cose stanno così.
IF: Nel libro spieghi come la gioventù abbia svolto un ruolo fondamentale nella mobilitazione. Che cosa rende la “generazione del 1997” tanto diversa dalle precedenti?
ALY: Adesso Pechino vuole il controllo totale sull’istruzione a Hong Kong per essere certa che i giovani non vengano influenzati da brutte idee. È ridicolo e controproducente. Sono stato un insegnante di scuola secondaria per quasi vent’anni. Ho miseramente fallito nel tentativo d’istillare nei miei studenti uno spirito di ribellione contro l’istruzione coloniale. Semplicemente non era il momento. Solo con l’avvento della ‘generazione del 1997’ un segmento significativo della società ha cominciato ad agitarsi. È una generazione piena di rabbia e di speranza. Di rabbia perché si sente ingannata da Pechino. Fin dalla nascita le hanno detto che il popolo di Hong Kong sollecitava Pechino a onorare la sua promessa di suffragio universale. Sono cresciuti e il suffragio non si vede da nessuna parte, al contrario Pechino lancia un attacco dopo l’altro contro l’autonomia di Hong Kong, donde la rabbia. D’altra parte, pensano che ci sia ancora speranza, a patto che di essere radicali, almeno più del Campo Democratico. Bisogna trovare una nuova strada per rispondere e loro pensano d’averla trovata nel fatto che ormai è “improrogabile”, nell’ “essere come l’acqua”, nel “coraggio” ecc. [Espressione fatta propria dal movimento, proviene da una frase di Bruce Lee, il celebre attore dei film di kung-fu, del 1971: «diventate amorfi, incorporei, come l’acqua», «l’acqua può scorrere e può distruggere, siate come l’acqua, amici miei».]
Se la disobbedienza civile e l’occupazione delle strade principali nel 2014 non ha piegato Pechino, allora scontriamoci con la polizia e occupiamo il palazzo del governo! Il loro coraggio viene anche dalla loro mentalità della “battaglia campale”, l’ultima battaglia per l’autonomia, dove riversare tutte le forze! Un altro fattore in gioco è la relativa libertà di cui la nuova generazione ha goduto mentre cresceva. Sotto il regime coloniale inglese, la nostra generazione è cresciuta in un’atmosfera repressiva e ha imparato a essere apolitica per evitare i guai. Di conseguenza, per un trentennio, il movimento democratico è stato fiacco, molto diverso da questa nuova generazione. I giovani sono inesperti, il che permette loro di pensate fuori degli schemi del Campo Democratico. Adesso hanno constatato coi loro occhi che neppure una rivolta così imponente come quella dell’anno scorso ha piegato Pechino, che al contrario ha contrattaccato con un’arma ancora più letale, la Legge sulla Sicurezza dello Stato. Adesso alla fine i giovani stanno capendo che è in corso una lotta di lunga durata e che non c’è nessuna “battaglia campale”. Sta diventando molto difficile anche solo lo scendere in campo, perché nell’agenda di Pechino figura la distruzione di questa generazione. L’hanno già fatto una volta, nel 1989. In conclusione, si potrebbe dire che il contributo della gioventù è che, come il bambino che gridò “il re è nudo”, sanno dove sta il problema. Stanno pure cercando di risolverlo, anche se la realtà ha dimostrato che si tratta di un compito di fronte al quale non sono ancora del tutto pronti.
IF: Di recente abbiamo pubblicato un articolo di Anita Chan sullo straordinario proliferare di sindacati a Hong Kong nell’ultimo anno. Anche tu hai dedicato al fenomeno una parte del tuo libro. Potresti andare un po’ più a fondo sul ruolo degli operai durante le proteste? Ci sono prospettive per la comparsa di un movimento del lavoro al tempo della nuova Legge sulla Sicurezza Nazionale?
ALY: Se si paragona la rivolta dell’altr’anno col Movimento degli Ombrelli si nota che il lavoro ha fatto un passo avanti. La Confederazione Sindacale di Hong Kong (CTU) fu fondata nel 1990 e oggi dichiara di raccogliere in totale 95 sindacati e 190.000 membri. Ha sempre seguito la linea politica del Campo Democratico e ha finito per alienarsi la nuova generazione, ragion per cui non ha avuto quasi nessun ruolo al tempo del Movimento degli Ombrelli. Proclamò uno sciopero, ma io ho sempre detto che vi aderirono solo due sindacati e mezzo, perché il sindacato degli insegnanti non era molto convinto. Questo rifletteva la costituzionale debolezza del movimento del lavoro a Hong Kong all’epoca. L’altr’anno, ai primi di giugno, quando il movimento era appena comparso e subito dopo la marcia dei due milioni, la confederazione proclamò un altro sciopero, ma fu un altro fallimento. La storia sembrava ripetersi. Invece no, i giovani non lo hanno permesso.
I mesi seguenti hanno visto una mobilitazione sempre più larga, ma, con i giovani sempre più consapevoli che non sarebbe bastata a far cedere Pechino, si sono moltiplicati anche gli appelli per lo sciopero generale. È stato anche il momento in cui un nuovo segmento di giovani impiegati ha cominciato a diventare attivista. Il 5 agosto 2019, la Confederazione e i suoi alleati sono stati capaci d’indire un riuscito sciopero generale, il primo dopo varie decine di anni. Fra gli altri, hanno aderito in massa i piloti e gli assistenti di volo e metà dei voli sono rimasti a terra, gettando il traffico aereo nel caos. Anche se in seguito altri scioperi sono falliti, dopo che Pechino ha risposto costringendo la Cathay Pacific a licenziare qualche dozzina di scioperanti, lo sciopero di agosto è rimasto nella memoria di molti come una dimostrazione della forza del lavoro, il che ha portato anche alla fondazione di un nuovo movimento sindacale durante il quale sono state fondate dozzine di nuovi sindacati. Il diffondersi della Covid-19 ha fornito l’opportunità al Fronte dei Lavoratori del Comparto Sanitario (ingl. HAEA), da poco fondato, di mettere alla prova la propria forza. Il sindacato raccoglie il 20% di una forza lavoro di 80,000 unità, e nel febbraio 2020 ha fatto cinque giorni di sciopero per chiedere al governo la chiusura temporanea del confine fra Hong Kong e la Cina continentale, onde impedire l’ulteriore diffusione del virus in città.
Il lato positivo dello sciopero è che si è vista una nuova dirigenza combattiva, un fatto molto raro fra i sindacati locali. Quello negativo, tuttavia, è stato che in più d’un’occasione è sembrato che i membri non fossero pronti ad adottare una linea più militante. Con Pechino che risponde con la Legge sulla Sicurezza dello Stato, il nuovo movimento sindacale ha ora di fronte il cimento più aspro dacché è stato fondato. I sindacati possono non essere il primo bersaglio per Pechino, ma le autorità locali sono decisamente contrarie a un movimento sindacale militante. Mi auguro che i sindacalisti più giovani abbiano il tempo di crescere prima della prossima offensiva di Pechino.
IF: Un aspetto che i media non trattano spesso è quello dell’impatto che avrà la Legge sulla Sicurezza dello Stato sulla società civile del continente. Per trent’anni, Hong Kong è stata il canale di finanziamento di un vasto schieramento di organizzazioni della società civile della Cina continentale, incluse le ONG dei lavoratori, degli avvocati dei diritti umani e di altri gruppi di attivisti. Con la società civile cinese già sotto un attacco senza precedenti, potrà Hong Kong svolgere ancora quel ruolo?
ALY: Già adesso è molto difficile. Alcuni gruppi di Hong Kong che hanno aiutato i lavoratori cinesi hanno dovuto o chiudere la loro attività o ridurla considerevolmente e adottare un basso profilo. Con l’intensificazione della crisi economica e del confronto con gli Stati Uniti, è molto probabile che Pechino perseguirà l’obliterazione totale delle organizzazioni del lavoro sul continente, soprattutto quelle legate a Hong Kong. Ricordo che una dozzina d’anni fa affittammo un autobus a Shenzhen e portammo tutta una comitiva di attivisti di base del lavoro tedeschi a visitare le fabbriche dove avevano scioperato. Non avemmo nemmeno il coraggio di scendere dall’autobus, ma gli attivisti tedeschi furono nondimeno molto impressionati dalle storie che sentirono e contenti di aver potuto vedere le fabbriche. Una cosa simile oggi è inimmaginabile. Lo spazio, ristretto ma reale, per l’attivismo delle ONG nel Delta del Fiume delle Perle s’è dileguato da un pezzo.
Abbiamo ancora un’altra forma d’intervento, però. Per decenni, l’immagine del popolo di Hong Kong difensore dei suoi diritti ha ispirato parecchia gente sul continente. In questa nuova fase repressiva, Hong Kong potrebbe ancora suscitare un movimento dal basso sul continente in maniera indiretta, cioè tramite la sua propria lotta per l’autonomia e la democrazia. È una cosa importante, perché il vantaggio di Hong Kong risiede nel suo soft power piuttosto che in un inesistente sharp power di cui andavano in cerca alcuni “valorosi”. Rendere la città un posto ostile ai Cinesi dal contenente è un suicidio. Sfortunatamente, durante la rivolta dell’altr’anno Pechino è ricorsa a piene mani alla presenza dei localisti di destra per presentare tutta la rivolta come indipendentista e anticinese, oltre che filo- Trump, col risultato di alienarle le simpatie dei potenziali alleati sul continente. Ma il problema per Hong Kong non sono tanto i localisti di destra, quanto la mancanza di una forte sinistra del lavoro la cui presenza potrebbe tenere la destra sotto schiaffo. La buona notizia è che con il nuovo movimento sindacale ci sarà un nuovo gruppo di attivisti del lavoro che andrà a comporre una nuova sinistra legata al lavoro, anche se ci vorrà tempo. In secondo luogo, i semi gettati dagli attivisti del lavoro del continente e di Hong Kong negli ultimi vent’anni stanno maturando.
Vent’anni fa, la maggior parte dei lavoratori migranti di origine contadina non avevano la minima idea dei loro diritti legittimi. Con le loro lotte, più l’aiuto delle ONG, oggi molti di loro sono meglio informati e pronti a esigere i loro diritti. Nel 2018, per esempio, un centinaio di malati di silicosi dallo Hunan si sono spontaneamente organizzati per andare a Shenzhen (dove hanno contratto la malattia professionale sul lavoro) e hanno fatto una petizione per un indennizzo. Per colpa della repressione feroce, gli operai non possono pensare ad alcuna organizzazione duratura, ma questo genere di lotte difensive possono essere lanciate lo stesso.
IF: Che ha in serbo il futuro per Hong Kong? Che sedi ci sono rimaste per noi che risiediamo all’estero per esprimere la nostra solidarietà?
ALY: Da quando m’hai inviato quest’elenco di domande, la situazione a Hong Kong non ha fatto che peggiorare, giorno dopo giorno. La totale asimmetria di potere fra Pechino e Hong Kong implica che noi ci troveremo in una situazione disperata per molti anni a venire, a meno che la situazione sul continente non conosca una svolta improvvisa. Alcuni dimostranti stanno celebrando il successo di quella che chiamano la “tattica della terra bruciata” dopo che gli Stati Uniti hanno abrogato lo status speciale di Hong Kong. Io non sottoscrivo la loro idea di ‘successo’, perché se Hong Kong diventasse un campo di battaglia fra Pechino e Washington le cose peggiorerebbero, invece di diventare più facili. Io però non voglio biasimare troppo questi sostenitori della “terra bruciata”, perché fin dall’inizio Hong Kong è stata sempre troppo piccola per poter svolgere un ruolo significativo nella costruzione del suo destino. È triste, ma il suo destino è stato sempre determinato da forze esterne. Per quanto impeccabile possa essere la nostra resistenza, il giorno in cui Pechino decidesse di mettere fine alla nostra autonomia, noi avremmo chiuso. La resistenza quotidiana per impedire alle cose di peggiorare è sempre necessaria, ma noi dobbiamo essere pronti per il giorno in cui l’opposizione organizzata sarà esclusa dalle elezioni o anche completamente spazzata via.
La popolazione locale è conscia dell’incombere di questa sciagura e quindi anela a un maggior sostegno internazionale. Tuttavia, essere una piccola città può sempre implicare che anche la lotta per difendere la nostra autonomia potrebbe sfuggirci dalle mani. Proprio a causa dell’unicità di Hong Kong – piccola ma significativa in termini geopolitici e finanziari internazionali – per noi la pressione internazionale è vitale. Ma dev’essere il tipo di pressione giusta. Sappiamo tutti fin troppo bene che i governi sono più una forza di mantenimento dello statu quo che un meccanismo per i cambiamenti in senso progressista. Sarebbe un pericolo mortale affidare la campagna di solidarietà a favore dei movimenti democratici del continente e di Hong Kong soltanto ai governi stranieri, per non parlare di cederla a Trump. Quello di cui abbiamo bisogno è una pressione delle associazioni internazionali progressiste del lavoro, dei gruppi della società civile e dei singoli individui sui rispettivi governi per fare le cose giuste e stare alla larga da quelle sbagliate. Il prerequisito per uno sforzo del genere è capire la situazione che sta evolvendo qui. Il mio suggerimento è che dovremmo farci guidare meno dall’ideologia e più dall’analisi obiettiva e dalla semplice empatia — e qui dico ideologia nel senso di ‘illusione socialmente necessaria’, che è separata dalla realtà. Il movimento di massa l’hanno unito le cinque richieste, quattro delle quali rimandano al rifiuto della Legge sull’Estradizione e la quinta consiste nel suffragio universale. Come può chiunque si voglia progressista non sostenere queste richieste?
Immagine: Hong Kong protests 2019, foto di Jonathan van Smit
Au Loong-Yu è autore di Hong Kong in Revolt: The Protest Movement and the Future of China, Pluto Books, agosto 2020. Ivan Franceschini è Postdoctoral Fellow presso l’Australian Centre on China in the World, The Australian National University, si occupa di attivismo e lotte sul lavoro in Cina.