Forse lo stesso Deng Xiaoping, il leader riformista che a fine anni Settanta lanciò le politiche di apertura e modernizzazione che in due decenni avrebbero sottratto alla povertà centinaia di milioni di persone, difficilmente avrebbe potuto immaginare che la Cina avrebbe fatto progressi talmente rapidi da poter ragionevolmente aspirare a diventare lo Stato tecnologicamente più avanzato al mondo entro il 2030. Dopo anni di progressi tecnologici lenti e graduali, nel 2008 vi fu un momento di svolta che impresse una decisa accelerazione alle ambizioni tecnologiche cinesi. La crisi finanziaria globale determinò una forte contrazione delle esportazioni cinesi – fino ad allora il principale elemento trainante della crescita economica nazionale – inducendo Pechino a puntare su un nuovo modello di sviluppo economico, basato sull’innovazione tecnologica quale mezzo per migliorare la qualità della produzione e ridurne i costi, aumentando la competitività internazionale del comparto industriale cinese. Queste tendenze vennero poi sistematizzate nel programma governativo Made in China 2025, che promuove lo sviluppo di industrie ritenute strategiche in 10 settori chiave per lo sviluppo dell’economia cinese.

Letti diversi, stesso sogno

Nel suo resoconto del panorama tecnologico della Cina contemporanea, Simone Pieranni racconta gli sviluppi più recenti dell’universo digitale cinese e ci porta a riflettere su alcuni importanti aspetti che potrebbero a breve realizzarsi anche nei Paesi occidentali. Per introdurci alla “rivoluzione tecnologica” cinese, l’autore parte dall’onnipresente ed onnipotente WeChat. Si tratta di una superapp sviluppata dal colosso cinese dell’hi-tech Tencent, la quale racchiude in sé innumerevoli funzioni che permettono di incamerare un’enorme quantità di informazioni sui suoi utenti, i quali passano intere giornate all’interno del microcosmo virtuale di WeChat chattando, facendo acquisti, espletando pratiche amministrative, leggendo notizie, sposandosi e molto altro.

Il fatto che Facebook stia cercando di creare un ecosistema che imita l’“interoperabilità” di WeChat (la possibilità di fare tutto quel che serve all’interno di un unico sistema operativo) è un’importante indicazione di una nuova tendenza in atto nei rapporti di forza tecnologici tra la Cina e altri Paesi, in primis gli Stati Uniti. Dopo anni in cui era la Cina a imitare quanto era prodotto in Occidente, è oggi l’Occidente a guardare alla Cina per trovare nuove idee per l’utilizzo delle tecnologie, soprattutto per quanto concerne la commercializzazione e monetizzazione di App e altri software.

L’uso di WeChat come chiave di lettura per analizzare lo sviluppo hi-tech cinese rivela non solo i punti di forza, ma anche le criticità del sistema tecnologico cinese. Primo, si tratta di un sistema chiuso: da un lato, la censura ha creato un mercato digitale interno scevro della concorrenza di super-aziende straniere, lasciando campo libero alle startup cinesi; dall’altro, il sistema cinese è stato pensato e sviluppato per funzionare solo in Cina: “il successo [di WeChat] è connaturato alle logiche della società cinese stessa. Non a caso WeChat, fuori dalla Cina, non ha le stesse funzionalità, ne ha molte meno”. Secondo, si tratta di un sistema dalle forti contraddizioni, in cui le aziende cinesi dell’hi-tech si alimentano di un esercito di lavoratori sottoposti a stress e ritmi usuranti (il ‘modello 996’, che significa dalle 9 del mattino alle 9 di sera, per sei giorni a settimana); e dove la tecnologia si inserisce spesso su un sostrato socio-economico alquanto traballante, come esemplifica l’aneddoto dei mendicanti che chiedono l’elemosina mostrando un cartello con Qrcode. Terzo, si tratta di un sistema che deve ancora affrontare le problematiche legate alla tutela della privacy e sicurezza dei dati. WeChat sa tutto di chi la utilizza, conosce i nostri spostamenti online ed offline, i nostri gusti ed abitudini. Ma l’attuale legislazione cinese in materia di privacy e tutela dei dati personali, seppure in rapida evoluzione, è ancora incompleta.

L’esperienza di WeChat rivela anche la prospettiva di un uso combinato di Big Data, IoT e intelligenza artificiale per costruire un pervasivo sistema di controllo della popolazione. Si tratta della materializzazione del “capitalismo di sorveglianza”, una tendenza che starebbe avvicinando Cina e Usa. Pieranni osserva che la differenza tra il modello cinese e quello americano/occidentale è formale piuttosto che sostanziale: in Occidente i dati sono gestiti da aziende che li utilizzano per fini privati, mentre in Cina è soprattutto lo Stato a disporre delle informazioni dei propri cittadini. Le aspirazioni di controllo della popolazione paiono tuttavia analoghe, come dimostrerebbero le rivelazioni di Edward Snowden o il caso di Cambridge Analytica, tra gli altri. Per raccontarci i dettagli del “capitalismo di sorveglianza” con caratteristiche cinesi, Pieranni ci guida nelle città del futuro, che in molti casi in Cina sono già le città del presente: le smart city.

Città intelligenti, forse troppo…

Le smart city sono “città intelligenti” in cui la pianificazione urbanistica correlata all’utilizzo delle nuove tecnologie aspira a migliorare la qualità della vita dei cittadini. Si tratta di progetti molto diffusi in Cina, che ha in atto un numero di sperimentazioni di smart city superiore a quello di tutti gli altri paesi messi insieme. Inserite nel XII Piano Quinquennale (2011-2015), le smart city sono un percorso sostanzialmente obbligato per la Cina. Pechino ha infatti dovuto ripensare il modello di sviluppo urbano cinese, in risposta all’inquinamento causato dallo sfrenato sviluppo economico, all’invecchiamento della popolazione e ad altri fattori socioeconomici, in primis un processo di urbanizzazione senza precedenti che sta mettendo a dura prova le capacità ricettive delle maggiori metropoli cinesi. In questo contesto, lo scopo del governo cinese è quello di consegnare alla propria popolazione città sicure dal punto di vista della sostenibilità ambientale e della sicurezza personale.

Per capire come la Cina immagina le città intelligenti, Pieranni ci conduce a Xiong’an, cittadina a cento chilometri circa da Pechino e fulcro della sperimentazione governativa sulle smart city. Spazi ordinati, puliti, efficienti, in cui i mezzi pubblici elettrici saranno gestiti da algoritmi che permettono di organizzare al meglio il traffico (cosa che del resto già avviene, ad esempio, grazie al City Brain gestito da Alibaba ad Hangzhou). Città in cui ci sentiremo sicuri grazie a una “ipertecnologica forma di ‘controllocrazia’” resa possibile da sistemi di videosorveglianza basati sul riconoscimento facciale, come quelli della cinese Hikvision. Città in cui la connessione 5G, grazie all’elevatissima velocità di download e una minore latenza, permetterà alle auto a guida autonoma di comunicare con i semafori e altri sensori intelligenti, ai cittadini di svolgere sempre più attività senza mai alzare gli occhi dal cellulare, e al governo di controllare con spettacolare efficienza le attività dei cittadini. Smart city efficienti, super controllate e sicure, ma probabilmente poco umane.

Ed è proprio la dimensione umana uno dei fili conduttori del libro di Pieranni. Mentre ci racconta le numerose ramificazioni legate agli sviluppi dell’universo tecnologico cinese, l’autore non dimentica che l’IoT, l’intelligenza artificiale e altre tecnologie di frontiera sono dei fenomeni che riguardano le persone, le quali non solo beneficiano delle funzionalità introdotte dalle nuove tecnologie, ma possono anche subirle. Quest’ultimo aspetto è esemplificato dal sistema dei crediti sociali (Scs), introdotto nella sua versione attuale nel 2014. Si tratta di un insieme di iniziative, molte delle quali ancora sperimentali, accomunate dall’obiettivo di assegnare a cittadini e aziende un punteggio sociale determinato dal proprio comportamento in termini di affidabilità economica, penale e amministrativa. In base al punteggio accumulato, i cittadini possono ricevere premi e punizioni che hanno un impatto diretto e reale sulle loro vite: dal divieto di acquistare biglietti aerei o ferroviari, a limiti nell’accedere a strutture educative o a ruoli pubblici.  Il sistema dei crediti sociali fa un uso estensivo dei dati raccolti dall’uso di superapp quali WeChat o Alipay (del gruppo Alibaba); delle immagini immagazzinate dai sistemi di riconoscimento facciale utilizzati non solo in videosorveglianza, ma anche per espletare varie procedure in banca e negli uffici pubblici; nonché dei dati generati da molte altre attività quotidiane dei cittadini cinesi, che le attuali tecnologie consentono di raccogliere con rapidità ed efficienza.

Turchi meccanici in Cina

La dimensione umana riguarda non solo chi utilizza la tecnologia, ma anche chi la produce. Infatti l’industria hi-tech si basa ancora su una serie di lavori tradizionali, ripetitivi come le catene di montaggio delle fabbriche. Esempio ne sono i ‘turchi meccanici’, termine di origine ottocentesca rilanciato da Amazon nel 2005 per indicare principalmente i lavoratori che catalogano immagini, video, suoni e altri dati utilizzati per allenare gli attuali sistemi di intelligenza artificiale, i quali si basano su algoritmi che richiedono una grandissima quantità di dati. In questi ed altri lavori dell’industria digitale – ad esempio, i milioni di persone che in Cina sono incaricate di controllare ed indirizzare i contenuti online – si ritrova una cultura del lavoro basata sul sacrificio, ritmi di lavoro estenuanti e bassi salari. Questa cultura del lavoro rimanda al periodo in cui la Cina era la ben nota fabbrica del mondo, e nell’industria tecnologica cinese di oggi è ben rappresentata da Huawei (colosso cinese dell’IoT) e Foxconn (azienda taiwanese fornitrice di Apple), tra gli altri.

L’industria digitale e l’intelligenza artificiale stanno quindi creando una nuova ondata di lavori di fascia bassa e ad alta intensità di manodopera. Tuttavia i lavoratori dell’hi-tech cinese hanno iniziato a opporre resistenza, come dimostra la protesta lanciata nei primi mesi del 2019 sulla piattaforma per la condivisione di codici GitHub da un gruppo di programmatori cinesi. Si tratta di una iniziativa che denuncia i ritmi di lavoro nelle aziende cinesi della tecnologia ed altri settori, ovvero il già menzionato ‘modello 996’. La protesta è stata condivisa dai programmatori di Microsoft, che opera la piattaforma Github, i quali hanno dichiarato di essere solidali con i lavoratori del settore tecnologico in Cina, dicendo che si tratta di un problema che attraversa i confini nazionali.

In aggiunta alla dimensione transnazionale che accomuna i lavoratori del settore hi-tech di diversi Paesi, Pieranni individua anche una tendenza alla “sinizzazione del mondo del lavoro”, in cui le aziende cinesi della tecnologia ed altri settori diffondono nei Paesi in cui si stabiliscono il modello di lavoro cinese, basato su ritmi estenuanti e bassi salari. Si tratta di una tendenza iniziata con la già citata Foxconn, ma che potrebbe essere perpetrata dal numero sempre maggiore di aziende cinesi dell’elettronica e dell’hi-tech che si espandono all’estero per produrre per il mercato globale. Anche questo è uno degli aspetti della rivoluzione tecnologica cinese su cui l’autore invita a riflettere. Si tratta di una questione resa ancor più saliente dal fatto che “ormai la Cina è ovunque, possiede aziende in tutto il mondo, tante delle quali in Occidente, e l’attitudine cinese alle questioni lavorative influenza già la vita di molti occidentali che lavorano per un padrone cinese o talvolta addirittura direttamente per lo Stato”.

Il futuro allo specchio

Pieranni ci invita a guardare alla Cina per cogliere le opportunità e le sfide derivanti da un futuro ad alto contenuto tecnologico che in Cina è molto spesso già realtà. Nel raccontarci il dinamismo produttivo che ha trasformato la Cina da fabbrica del mondo a hub tecnologico di livello mondiale, l’autore ci ricorda anche che “in Cina convivono molti sistemi, diversi approcci, anche in apparenza l’uno il contrario dell’altro; si tratta di un’altra caratteristica da tenere a mente quando si analizza la Cina”.

E le contraddizioni della rivoluzione tecnologica cinese vengono ben evidenziate nel raccontare i successi di un Paese che pare destinato a divenire la più grande potenza tecnologica mondiale. Pieranni sottolinea infatti come IoT, big data, intelligenza artificiale e altre tecnologie all’avanguardia troveranno applicazione non solo nello smart manufacturing o nelle infrastrutture intelligenti che alimentano le smart city cinesi. Queste stesse tecnologie renderanno possibile anche il pervasivo sistema di controllo della popolazione voluto da Pechino: “quando la tecnologia consente di estrarre i dati più svariati e precisi sul comportamento della popolazione e quando questi dati sono facilmente utilizzabili dagli apparati statali, aumentano e non poco le possibilità di controllare e organizzare a proprio piacimento una società”.

Nel valutare gli utilizzi tecnologici che stanno emergendo in Cina, i Paesi occidentali dovranno evitare una sorta di “orientalismo alla rovescia”, ovvero di adottare in maniera acritica usi della tecnologia che sono legati a dinamiche storiche, culturali, politiche, socioeconomiche ed etiche estranee all’esperienza occidentale e al nostro sistema di valori. Infatti va ricordato, osserva Pieranni, che “siamo in presenza di uno Stato, la Cina, con evidenti tendenze autoritarie, quanto meno secondo i nostri canoni di valutazione”.

Nonostante le diversità, capire l’esperienza della Cina è utile poiché essa dimostra che le tecnologie possono diventare sia uno strumento per migliorare la vita delle persone, sia un’arma di controllo sociale nelle mani di Stati e piattaforme tecnologiche. Il libro di Pieranni, che racconta i fenomeni più importanti del mondo della tecnologia cinese di oggi per parlarci del nostro possibile domani, ci offre l’opportunità di interrogarci sul futuro cui aspiriamo.

(Simone Pieranni, Red Mirror: il nostro futuro si scrive in Cina, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma, 2020)

Immagine: sorveglianza a Zhongguancun, foto di Simone Pieranni

Diego Todaro è dottorando presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e Africa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia/Dottorato Internazionale con la Heidelberg Universität. Il suo progetto di ricerca si propone di esaminare l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale (AI) nelle politiche sociali della municipalità di Shanghai. In precedenza ha conseguito una laurea specialistica in Lingue e Istituzioni Economiche e Giuridiche dell’Asia Orientale (curriculum Cina) presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, e successivamente un Master in Public Policy (specializzazione in International Relations & Security Studies) presso la Lee Kuan Yew School of Public Policy della National University of Singapore. Negli anni della sua formazione ha soggiornato a lungo in Asia, soprattutto in Cina e Singapore. Dal 2010 vive e lavora a Shanghai.