Il corpo, nella nostra società post-religiosa, è forse l’unico baluardo del sacro ormai rimasto: da un lato ne veneriamo l’immagine perfetta, sulla quale proiettiamo i nostri ideali eroici e i nostri sogni di immortalità, dall’altro lo trattiamo come tabù, nascondendone a noi stessi le funzioni primarie che costituiscono la base inquietante della nostra mortalità.
In fondo, se togliamo i simulacri con cui riproduciamo all’infinito la nostra adorazione del corpo-pixel, a parte quando insorge il desiderio e allora chiamiamo il corpo a soddisfarlo, del corpo, con i suoi imbarazzanti e rumorosi ingranaggi, cerchiamo per lo più di dimenticarci. È quando non ci ricordiamo del corpo, infatti, che è segno che sta tutto funzionando.
Ma a volte il corpo ritorna, e lo fa spesso come se fosse una vendetta: un po’ di raschio in gola, una febbriciattola, oppure un dolorino lì, un ingrossamento qui, il corpo si ammala e ci avverte che esiste: ecco, pensavi di essere una res cogitans servita da uno schiavo riverente e invece, da oggi in poi, e chissà per quanto tempo, dovrai fare i conti con un nuovo padrone.
Oppure potremmo provare con una metafora, un aforisma che di questi tempi suonerebbe molto attuale: il corpo è come la legge dello stato, non ti accorgi neanche che esiste, fino a quando non viene a toglierti la libertà.
Avete già capito di cosa sto parlando.
Perché, in questi giorni, il coronavirus non ha solamente riportato nel moderno la medievale fralezza umana, ma ha pure riportato all’evidenza, insieme all’emergenza, e allo “stato” di eccezione, l’esistenza di un altro corpo, anch’esso spesso invisibile, discreto, permissivista, ma più grande, e inevitabile, e ingombrante, che ci ingloba tutti quanti e ci contiene come corpi, bioregolamentandoci: il corpo dello stato.
Uno stato che all’improvviso riemerge dalle sue nebbie neoliberali per rivendicare le sue prerogative primordiali, quelle per cui sarebbe nato: la funzione di proteggerci, proteggere noi dagli altri, gli altri da noi, noi da noi stessi, e proteggere sé stesso, la sua tenuta, i suoi bilanci.
Ecco che attorno a te spunta allora un cordone sanitario, un posto di blocco, una zona rossa, un’ordinanza comunale, un decreto nazionale; voilà, il tuo corpo è confinato; oppure, quando il caso si fa grave, ecco un tampone, una diagnosi sgradita, un’ambulanza, una stanza d’ospedale, e poi ancora aghi, tubi di plastica, e farmaci invasivi: lo stato, ormai, è entrato nel tuo corpo, con la consapevolezza che solo lui ti può salvare.
Li abbiamo visti bene questi corpi entrare in azione, nelle ultime settimane.
Abbiamo visto il corpo enorme ma agile, rigido ma reattivo dello stato cinese, intervenuto per imporre draconiane quarantene, bloccare tutti a casa, costruire ospedali in tempi record, orchestrare chirurgici controlli, tracciare ogni micromovimento, eccetera: e adesso il corpo che pareva moribondo della Cina sembra essere già pronto per ritornare a correre.
E poi abbiamo visto il corpo inizialmente gracile, indeciso, governato da un cervello frastornato a cui le membra sregolate e litigiose non volevano dar retta: il nostro stato.
Non si sa come andrà a finire, e, per il momento, possiamo solo sperare per il meglio, e sorvegliare da soli i nostri corpi.
Ma quanto avviene, forse, può spingerci a riflettere una volta di più sulla relazione fra il nostro piccolo corpo e quello più grande dello stato, pensando a che tipo di rapporto vorremmo costruire per avere un corpo sano, per così dire, in uno stato sano.
Oggi l’OMS applaude di fronte alle misure drastiche ma necessarie adottate dalla Cina, e però non dice nulla sugli interventi del governo di Taiwan, che è riuscito a preservare come meglio non si poteva la popolazione sia dalle sofferenze del contagio, sia dalle limitazioni alle libertà derivanti dal suo contenimento. Anche da noi, in cui all’inizio erano state le voci imbecilli dei razzisti a farsi riconoscere, sembra di udire un brusio crescente di toni laudatori, di chi ammira la Cina per la sua efficienza e i cinesi per il loro spirito di disciplina, opinioni spesso finalizzate, in verità, a stigmatizzare per contrasto la nostra atavica inefficienza e l’irresponsabilità dei nostri connazionali, prossimi ormai a diventare i nostri nemici adesso che non possiamo più prendercela con i poveri stranieri. Il governo cinese, intanto, continua a pompare propaganda come solo in tempi di emergenza si può fare, decantando la superiorità del proprio sistema “comunista”, dichiarando che l’eroica “guerra del popolo” cinese contro il morbo è quasi vinta, pretendendo che grazie ai propri sacrifici ha aiutato il mondo a prepararsi alla difesa del contagio, compatendo quegli altri paesi poco avvezzi alla disciplina che sono andati in palla al primo insorgere della crisi, e offrendosi infine come avanguardia scientifica, economica e morale pronta a schierarsi in prima linea per debellare il flagello mondiale, che adesso, secondo alcune voci propagate dai media ufficiali, non sembrerebbe nemmeno essere nato in Cina. Va bene allora, d’accordo: lodiamo pure il governo cinese per la sua bravura, ma non dimentichiamo che l’efficienza con cui quest’ultimo ha contenuto il contagio non è nient’altro altro che l’altra faccia della stessa medaglia, il lato positivo di un modello di governo che se da una parte si rivela imbattibile nel risolvere una crisi, dall’altra, nello stesso tempo, questa crisi ha contribuito sostanzialmente esso stesso a crearla. L’accentramento assoluto del potere dà sicuramente molta forza, ma il potere, per potersi accentrare così tanto, ha bisogno di mantenere un dominio inflessibile sul discorso, strozzando nella culla ogni voce discordante, e con essa ogni verità sgradita. Non si tratta di capriccioso dispotismo, ma di un meccanismo strutturale del sistema. Né si tratta di difendere il valore non negoziabile della libertà di opinione, ma di garantire che, per questioni fondamentali che riguardano la sicurezza nazionale, importanti informazioni di interesse pubblico circolino liberamente per il bene – in questo caso la salute – di tutti. La soppressione di queste informazioni, all’inizio, è stato il fattore scatenante che ha dato avvio alla crisi, favorendo la diffusione del morbo prima in Cina e poi nel resto del mondo. E invece oggi, a un mese e mezzo dall’inizio della quarantena di Wuhan, non solo è proibito in Cina – prevedibilmente – chiedere di far luce sulle responsabilità reali del governo nei primi tempi del contagio, o semplicemente dar voce ai singoli drammi vissuti dai cittadini a causa del contagio e del suo contenimento, ma pure è partita una campagna sistematica di propaganda con cui il Partito cerca di rinarrare la storia dell’epidemia trasformandola in un trionfo del modello politico cinese. Il morbo secondo questa narrazione è un flagello naturale venuto chissà da dove e chissà come, di cui la Cina sarebbe stata soltanto e solamente la prima vittima, e viva viva la saggezza del grande leader Xi Jinping che ha salvato la nazione, e che potrebbe anche aiutare i paesi dell’“occidente” a salvarsi da se stessi, se solo i governi e i popoli delle democrazie liberali non fossero così stolti, miopi ed egoisti (un punto su cui possiamo anche parzialmente essere d’accordo). Ecco, il governo cinese con i suoi successi nel contenimento del virus cerca di far dimenticare le sue responsabilità nel propagarlo, una prassi di cosmesi storica molto familiare in Cina che però questa volta sembra avere la potenza per far sentire i suoi effetti anche all’estero. Il governo cinese, ormai, ha i mezzi, e non solo la volontà, per diffondere nel resto del mondo la propria “buona” narrazione. Sarebbe dunque importante che, mentre come siamo già usi fare rampogniamo i nostri stati per le loro mancanze e i nostri concittadini per le loro inciviltà, vigilassimo anche affinché questa narrazione non si imponesse in modo acritico anche da noi.
È per questo, perciò, che diventa tanto più interessante leggere le “note sulla quarantena” scritte dall’autrice cinese Fang Fang (1955-) a partire dallo scorso 25 gennaio, pochi giorni dopo la chiusura della città di Wuhan.
Scrittrice wuhanese doc, narratrice della cosiddetta tendenza “neorealista” caratterizzata per la sua “estrema attenzione alle forme elementari della vita reale, lo sguardo genuino e diretto sulla realtà e sull’esistenza” (Chen Sihe e Wang Xiaoming, “Xin xieshi xiaoshuo dalianzhan juanshouyu”, Note di redazione sulla grande rassegna del romanzo neorealista, Zhongshan, 4, 1989, 3), da oltre trent’anni testimone e portavoce dell’anima e del corpo della città, Fang Fang da un mese e mezzo a questa parte scrive ogni giorno una paginetta di diario pubblicandola sul suo blog di Weibo, dove molte volte sopravvive incensurata, mentre altre volte non ce la fa.
Contro il mito eroico dell’unità fra popolo e partito, stretti come una coorte nella strenua lotta per sconfiggere il viral nemico, sono state le pagine scarne e asciutte del diario di Fang Fang a restituire, a molti lettori disorientati e atomizzati nelle loro case, non solo parole di conforto e di buon senso, ma anche un sentimento veramente collettivo in reazione alla sciagura nazionale, offrendole catarsi. Fang Fang, nel suo blog, si rivolge agli abitanti della Cina, per raccontare loro come stanno gli abitanti di Wuhan, e si rivolge agli abitanti di Wuhan, per raccontargli cosa succede nel resto della Cina, raccontandogli nello stesso tempo del tran tran della sua vita quotidiana. Fang Fang parla di cose minime, prosaiche, piccole preoccupazioni e ansie di chi è recluso e ha paura di uscire anche solo dalla porta, buone e cattive notizie che si susseguono in tempo reale in un accavallarsi di tensioni e speranze, utili informazioni e consigli pratici su come tirare avanti durante la clausura, ma anche grandi questioni nazionali, dalle colpe politiche dei funzionari alle tare culturali della Cina.
Il suo blog, perciò, diventa uno specchio in cui il lettore cinese, guardandosi, vede se stesso come partecipante del comune travaglio collettivo, e ha il merito di ricucire, nel nome della solidarietà, il corpo ferito della nazione, ricreando una comunità autentica con una voce autentica che riporta a galla l’esperienza autentica della popolazione manipolata dalla narrazione di regime.
Ma non solo per questo ritengo che sarebbe importante tradurre per i nostri lettori, almeno in parte, questo testo (purtroppo l’autrice vorrebbe ci limitassimo a pubblicare pochi post, e così ho fatto). Il razzismo, infatti, com’è noto trova terreno fertile nell’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, di immaginare che la vita dell’altro, al di là delle apparenze più esteriori, è pressoché simile, se non del tutto uguale, alla nostra. Una delle ragioni della nostra profonda indifferenza, soltanto poche settimane fa, rispetto a quanto stava accadendo a Wuhan, derivava probabilmente anche dal fatto che non potevamo vedere che cosa succedeva, come viveva la gente, nelle loro case, in quei frangenti. Lo avessimo saputo, forse ci saremmo immedesimati un po’ di più. Ma ora le cose sono cambiate. Adesso Wuhan siamo noi, e speriamo che nessuno ci abbandoni nell’indifferenza come abbiamo fatto noi, inizialmente, con gli abitanti della Cina. È in questi momenti che un bravo scrittore aiuta, dato che quello che ci offre non sono né freddi numeri statistici, né la propaganda dei politici, né le informazioni ponderate degli studiosi, ma la vita nella sua radice complessa e universale. Già si vede bene come il coronavirus sia destinato a diventare il nuovo round nella guerra fredda attualmente in corso fra i mondi oggi in competizione. Contro le mistificazioni delle parti contendenti, dall’una e dall’altra parte, proporre soluzioni positive per migliorare la vita nel pianeta è un compito che spetterà nel prossimo futuro anche a noi. Ma intanto, per adesso, oggi tutti a casa.
Fang Fang: Note sulla quarantena
Secondo giorno del primo mese del calendario lunare (26 gennaio)
Grazie a tutti per la vostra attenzione e le vostre premure. Gli wuhanesi si trovano ancora in un momento critico, e anche se la paura, l’impotenza, l’ansia e l’agitazione della prima ora sono ormai passati, e ci sentiamo tutti molto più tranquilli e sicuri, abbiamo comunque ancora bisogno del vostro conforto e sostegno. Oggi, almeno, la maggioranza di noi non si trova più in preda al panico. Inizialmente volevo cominciare a scrivere a partire dal 31 dicembre, per riassumere come nelle ultime settimane sono passata dalla tensione dell’allerta alla distensione, ma così sarebbe stato troppo lungo. Perciò preferisco scrivere in tempo reale un po’ di sensazioni recenti, e in seguito scrivere un po’ alla volta le mie “note sulla quarantena” (fengcheng jilu 封城记录).
Ieri era il secondo giorno del calendario lunare, c’erano ancora pioggia e vento freddo, e sono arrivate notizie sia buone che cattive. Una buona notizia, ovviamente, è che il governo ci sostiene in modo sempre più energico, medici e infermieri accorrono a Wuhan in numero sempre maggiore, eccetera eccetera. Gli wuhanesi per questo sono molto più sereni. Questo lo sapete tutti.
Quanto a noi, le buone notizie sono: nessuno dei miei parenti, al momento, è stato contagiato. Il mio secondo fratello più grande abita nel quartiere epicentro dell’epidemia, casa sua è tra il mercato del pesce di Huanan e l’Ospedale Centrale di Hankou. Di salute lui non sta molto bene, e spesso gli è capitato di entrare e uscire proprio da quell’ospedale, ma per fortuna né lui né mia nuora si sono presi ancora niente. Mi ha detto che ha già messo da parte cibo per dieci giorni e che se ne sta tappato in casa. Invece io e mia figlia, e la famiglia del mio fratello più grande, abitiamo tutti a Wuchang. Da questa parte del fiume il pericolo rispetto a Hankou è leggermente minore, e siamo tutti più tranquilli. Anche se ci tocca a stare chiusi in casa non ci sembra di annoiarci, visto che siamo tutti un po’ pantofolari. Solo mia nipote, che era tornata a Wuhan col figlio per trovare i genitori, mi fa stare un po’ in pensiero. Inizialmente avrebbe dovuto andare da Wuhan a Guangzhou con l’alta velocità il 23 gennaio per ricongiungersi con il marito e con la suocera, ma poi, dato che proprio quel giorno la città è stata messa in quarantena, non è più riuscita a partire (non che se ce l’avesse fatta, probabilmente, le sarebbe andata molto meglio). E adesso è tutto un punto di domanda, fino a quando durerà la quarantena, se potrà lavorare o mandare a scuola i bambini… Loro però hanno il passaporto di Singapore, e così ieri sono stati avvisati dal governo singaporiano che nei prossimi giorni verrà un aereo per riportarli a casa (mi sa che non sono pochi a Wuhan i cittadini cinesi con passaporto singaporiano). Poi una volta tornati dovranno stare in isolamento 14 giorni. La notizia ci ha rasserenato tutti quanti. Meglio ancora la notizia che riguarda il padre di mia figlia, che era stato ricoverato in ospedale a Shanghai dove gli avevano trovato una macchia nei polmoni. Ieri hanno sciolto la prognosi, non si tratta di coronavirus ma di un comune raffreddore, e oggi verrà prontamente dimesso. Così anche mia figlia che recentemente era stata a mangiare da lui non dovrà starsene più in totale isolamento a casa propria (alla vigilia di capodanno avevo guidato sotto la pioggia per andare a portarle da mangiare!). Come vorrei che tutti i giorni arrivasse qualche notizia come queste: così, pur con la città in quarantena, pur rinchiusi in casa, almeno ci sentiremmo un po’ più distesi.
Ma le brutte notizie non smettono di arrivare. Ieri mia figlia mi ha raccontato che il padre di una sua conoscente, già malato di cancro al fegato, era andato all’ospedale per un sospetto di contagio, ma siccome non c’era nessuno per curarlo, è morto nel giro di tre ore. È successo un paio di giorni fa. Anche mia figlia, al telefono, era molto abbacchiata. Ieri sera invece mi ha telefono Xiao Li, che lavora nella nostra struttura, per dirmi che nel complesso della Federazione della Letteratura e delle Arti dove abito avevano appena scoperto due contagiati. Poco più che trentenni, della stessa famiglia. Casa loro si trova a due-trecento metri da casa mia, così Xiao Li mi ha raccomandato di fare attenzione. Ma la mia è un’abitazione separata a ingresso unico, per cui io non ho motivo di preoccuparmi ulteriormente. Sono quei vicini che abitano nei caseggiati con molte scale che potrebbero avere di che preoccuparsi. Oggi un collega mi ha detto che la loro è un’infezione lieve, e che adesso si stanno curando standosene in isolamento a domicilio. Giovani, robusti, con sintomi leggeri: dovrebbero farcela in tempi molto rapidi. Prego per loro che si rimettano in fretta.
Ieri in internet la conferenza stampa dello Hubei è stata ricercatissima. Ho visto online un sacco di commenti sprezzanti. Ma i tre funzionari avevano uno sguardo mesto ed esausto, si impappinavano continuamente, segno che anche loro erano scombussolati. In realtà sarebbero anche da compatire. Anche loro a Wuhan devono avere una famiglia, e le loro autocritiche, sono convinta, erano genuine. Col senno di poi non è difficile capire come le cose siano arrivate a questo punto. La leggerezza con cui nei primi tempi i funzionari di Wuhan hanno trattato l’epidemia e la loro incompetenza al momento di chiudere la città hanno recato danno a tutti gli abitanti di Wuhan, di questo nei miei articoli ne parlerò come si deve. Ma ora ciò che mi interessa dire è che i funzionari dello Hubei, quanto comportamento, non sono mediamente differenti rispetto a quelli di tutto il resto del paese. Non è che loro siano peggio degli altri, casomai è che sono stati più sfortunati. I funzionari agiscono da sempre seguendo le direttive: quando queste vengono a mancare, vanno in tilt. Se quello che è successo fosse avvenuto di questi tempi in altre province, i funzionari di queste ultime non si sarebbero certo comportati meglio. Insomma, ora possiamo toccare con mano uno ad uno gli effetti perversi della malaselezione dei funzionari, della tendenza a dare ciecamente ragione al governo senza guardare ai fatti, e quella ad impedire alla gente e ai media di dire e riportare cose vere. Wuhan non ha fatto altro che primeggiare in questa gara, e alla fine se l’è presa sui denti.
Sesto giorno del calendario lunare (30 gennaio)
Oggi c’è un cielo azzurrissimo, con piacevolissime tinte invernali, la giornata ideale per godersi l’inverno. L’umore delle persone, però, è stato guastato del tutto dall’epidemia. Una bellezza infinita, ma nessuno che la guarda.
Davanti ai nostri occhi, ancora una realtà crudele. Stamattina appena alzata ho letto un po’ di notizie, fra cui quella di un contadino che è stato bloccato fuori dalla città in piena notte. Quello supplicava e supplicava, ma la guardia non lo faceva entrare. Dove sarà andato alla fine quel contadino, in una notte tanto gelida? Davvero ti si stringe il cuore. D’accordo, le norme di prevenzione funzionano, ma non è possibile che per applicarle si rinunci al minimo senso di umanità. Perché i nostri funzionari di una direttiva devono sempre farne un dogma? Non bastava che qualcuno con indosso una mascherina portasse quel contadino in una stanza vuota e lo lasciasse lì a passare la notte in isolamento? E poi ho letto di quel bambino con una paresi cerebrale, morto di fame perché era rimasto a casa da solo per cinque giorni dato che suo padre era stato messo in quarantena. L’epidemia mette in mostra un’infinità di facce, rivela gli standard dei funzionari di ogni luogo, e rivela, soprattutto, la nostra malattia sociale. Malattia che è ancora più perversa del coronavirus e, decisamente, ben più radicata. Né è dato vedersi per quando è prevista la guarigione, dato che non ci sono né dottori né qualcuno che abbia intenzione di curarla. È una cosa che a pensarci mi dà il magone. Intanto pochi secondi fa un amico mi ha detto che un giovane della nostra struttura sta male da due giorni, ha problemi respiratori e c’è sospetto di contagio, ma non ha avuto una diagnosi e non può andare in ospedale. Un giovanotto tanto bravo e onesto. Con la sua famiglia ci conosciamo bene. Quanto spero si tratti di un banale raffreddore, non sia mai che si sia beccato questo malanno.
Tanti mi hanno scritto per dirmi che hanno visto l’intervista che ho fatto su China News Service (la seconda agenzia di stampa nazionale dopo Xinhua, ndt) … e pensano che abbia detto cose giuste. In realtà, l’intervista presenta ovviamente dei tagli, questo non c’è neanche bisogno di dirlo. Anche se, secondo me, certe frasi le potevano anche lasciare. Per esempio sulla questione del trattamento del trauma avevo detto: “La cosa più importante è che il governo dia speciale conforto soprattutto ai familiari dei pazienti contagiati e dei defunti, sono loro probabilmente quelli che soffrono più di tutti, al punto che alcuni potrebbero non essere in grado di riprendersi…” Ma poi mi sono tornati in mente quel contadino cacciato via a notte fonda, quel bambino morto di fame a casa da solo, quei tantissimi poveracci che non hanno nessuno a cui chiedere soccorso, e tutti quegli wuhanesi (tra cui anche bambini) bloccati fuori dalla città e scacciati da ogni parte come cani randagi, e non ho idea di quanto tempo ci metteranno a riprendersi da un simile trauma. Quanto alle perdite dell’intero paese, non c’è bisogno che sia io a parlarne.
In internet da ieri non si fa che parlare dell’atteggiamento degli esperti arrivati a Wuhan. Esatto, proprio quegli esperti compiaciuti e blasé che si erano già macchiati di un crimine tremendo quando ci hanno detto con leggerezza che “il contagio non si trasmette da persona a persona” e che “tutto è sotto controllo”. Dovrebbero pur sentirsi in colpa, se una coscienza ce l’hanno ancora, a vedere tutte le persone in difficoltà che stanno soffrendo, o no? Certo mettere al sicuro la popolazione e il territorio era compito dei funzionari in carica dello Hubei, e quindi è tutta responsabilità loro se adesso la popolazione e il territorio non sono stati protetti. Eppure se l’epidemia è arrivata a questo punto è stato per un concorso di forze. Non c’è più spazio, ormai, per fare gli scaricabarile. Ma la nostra speranza, ora, è che questi funzionari si facciano forza e, sia per un senso di riscatto sia ancor più per un senso di responsabilità, continuino a guidare il popolo dello Hubei nello sforzo di uscire dal disastro, così da ottenerne il perdono. Se resiste Wuhan, resiste tutta la Cina.
I miei sono tutti a Wuhan e fortunatamente per il momento stanno ancora tutti bene. Anche se, in verità, siamo tutti un po’ vecchiotti. Il mio fratello più grande e sua moglie sono già in là nei settanta, mentre io e il mio secondo fratello maggiore ci avviamo pure noi verso i “sette”. Già non ammalandoci faremmo un favore al paese. Almeno mia nipote e suo figlio stamattina sono già arrivati senza problemi a Singapore, dove sono stati messi in quarantena in un villaggio vacanze. I nostri ringraziamenti vanno tutti ai vigili del quartiere di Hongshan. Ieri mia nipote aveva ricevuto il seguente avviso: il volo per Singapore partirà stanotte alle ore tre, ma occorre presentarsi in aeroporto in anticipo entro sera. Tra i trasporti pubblici bloccati e mio fratello maggiore che non sa guidare, però, mia nipote e suo figlio non avevano mezzi per arrivare in aeroporto. Così l’incarico è toccato a me. Allora ho chiesto ai vigili di Hongshan, il quartiere in cui si trova l’università in cui abita mio fratello, se la mia macchina avrebbe potuto circolare, ma siccome a quanto pare nel loro ufficio ci sono molti miei lettori, mi hanno detto di rimanermene a casa a scrivere e di lasciare che se ne occupassero loro, e alla fine ci hanno mandato un poliziotto per portare mia nipote e suo figlio in aeroporto. Tutta la mia famiglia li ringrazia dal profondo del cuore. Niente dà più sicurezza che trovare un poliziotto quando si è in difficoltà. Oggi sapere che mia nipote e suo figlio stanno entrambi bene è ciò che mi rende più contenta.
Oggi è già il sesto giorno dell’anno, l’ottavo da quando è stata chiusa la città. Bisogna comunque dire che anche se gli wuhanesi sono per natura gente ottimista, anche se il lavoro a Wuhan è sempre più ordinato, la situazione in città è ancora molto brutta.
Stasera ho cenato mangiando un zhou di miglio. Fra un po’ vado a fare un po’ di moto sul tapis roulant. Piccole gocce di vita, registriamo tutto.
Tredicesimo giorno del primo mese del calendario lunare (6 febbraio)
Oggi a Wuhan ha ricominciato a piovere. Il cielo è plumbeo e il tempo cattivo ti dà un senso di sfacelo. Se esci ti arriva in faccia un vento freddo, che ti mette i brividi.
Oggi però ci sono soprattutto buone notizie. Notizie eccitanti, come non succedeva da tanti giorni. Primo, in una trasmissione hanno detto che il contagio molto presto rallenterà. A parlare era uno che figurava come esperto, o comunque a me pareva una fonte affidabile. Secondo, in internet rimbalza la notizia che all’ospedale di Jinyantan hanno cominciato a sperimentare l’uso del Remdesivir (che gli esperti cinesi hanno ribattezzato “la speranza del popolo”) e si dice che funzioni. Gli wuhanesi sono tutti in fibrillazione, probabile che se non fossero costretti per legge a stare chiusi in casa sarebbero già tutti in strada a fare festa. Finalmente, dopo tanta clausura e tante aspettative, si vede un poco di speranza, per di più arrivata così all’improvviso, così tempestiva, proprio mentre la gente da giorni ormai si intristiva sempre più. Anche se molti poi hanno cominciato a smentire, a dire che non fa nessun effetto, ma io ho pensato: echissenefrega, prendiamola comunque come una buona notizia. Fra tre giorni, forse, le nostre aspettative troveranno una conferma concreta.
Intanto i tanto attesi ospedali modulari hanno cominciato ufficialmente a operare. In internet sono comparsi video e foto postati dai degenti, e già sono venute fuori le lamentele di quelli che reputano le condizioni troppo scarse, e così via. A me però sembra inevitabile che, in un prefabbricato montato in tutta fretta in un giorno, ci sia un certo grado di disordine. Ma il lavoro un po’ alla volta si rimetterà in pari. Non è facile gestire così tante persone, figuriamoci poi se sono malate. Casi di nervosismo e di insofferenza ci saranno sempre, in fondo è più comodo per tutti starsene a casetta. Ieri pomeriggio Feng Tianyu dell’Università di Wuhan mi ha mandato un messaggino dicendomi che Yan Zhi (l’imprenditore edile che ha costruito i primi due ospedali modulari, ndt) gli ha detto che sui due ospedali modulari di cui si è occupata la sua ditta lui dà la sua massima garanzia: “Metteremo televisioni, angoli libreria, isole per la corrente, angoli per il fast food, garantiremo ogni giorno ai malati una mela o una banana, faremo di tutto per dargli un po’ di calore”. Dai, vedi che qualche pensiero ce l’hanno? Anche gli altri ospedali modulari, mi sa, verranno dati in appalto. Ma quello che riesce a fare Yan Zhi riusciranno a farlo anche gli altri. I suoi momenti più difficili Wuhan ormai li ha superati, e anche noi abbiamo sempre meno di cui angustiarci. Tutti quei malati che prima non sapevano dove andare adesso possono finalmente starsene tranquilli e isolati a ricevere le dovute cure in un letto di ospedale; sia come sia, è indubbiamente una cosa buona per loro e per tutti noi. Certo poi c’è una giornata come questa: quanti di questi malati finiranno per aggravarsi o crolleranno per la strada? Perciò noi possiamo solo rimanere calmi e tenere duro; solo se la situazione generale è sotto controllo tutti potremo davvero essere al sicuro.
Stamattina ho visto anche il video di uno pneumologo dell’ospedale di Zhongnan che è stato contagiato e si è salvato per un pelo. Adesso che è tornato di nuovo alla vita, ci ha raccontato spiritosamente quello che ha passato. Il virus se l’è preso attraverso il contatto diretto con i pazienti. Poi la moglie si è presa cura di lui quand’era moribondo, nonostante fosse anche lei malata, seppure lievemente. Perciò ha detto a tutti che non occorre essere terrorizzati. E ha detto che quelli che stavolta non ce la fanno, quelli che sviluppano sintomi gravi, sono soprattutto anziani con patologie. I giovani, se stanno fisicamente bene e si curano come si deve, ne vengono fuori abbastanza facilmente. Ci ha anche spiegato alcune caratteristiche del coronavirus, per esempio che l’infezione parte dai lati di entrambi i polmoni senza che ci siano sintomi evidenti, come per esempio naso che cola o altro. Dato che lui ci è passato, alle sue parole c’è da crederci. Perciò quello che dobbiamo fare è continuare a stare a casa senza farci prendere dal panico. Non dobbiamo muoverci a casaccio, dobbiamo agire con lucidità anche se abbiamo la tosse o il raffreddore. Oggi il governo ha anche annunciato che tutti devono misurarsi la temperatura corporea. E la gente per un attimo è andata nel panico, temendo che sarebbe stata contagiata mentre andava a misurarsi la febbre. Da quanto ne so, però, sono solo i casi sospetti a doversi far vedere per misurarsi la febbre, per gli altri basta fare una telefonata da casa. Perciò non c’è bisogno che la gente corra dei rischi. Nell’emergenza come nella vita quotidiana, ci sono molti stupidi che fanno stupidaggini; la maggior parte, però, non sono né stupidi, né fanno stupidaggini.
E adesso parliamo un po’ di me. Stamattina appena alzata ho trovato al cellulare il messaggio di una vicina che diceva che sua figlia oggi è uscita per fare la spesa e ne ha fatta un po’ anche per me; siccome me l’ha lasciata fuori dalla porta, voleva che uscissi per andare a prendermela. Appena rientrata, mi ha telefonato la nipote di una zia per dirmi che anche lei mi avrebbe lasciato sulla porta delle salsicce e del tofu fermentato. Alla fine sono rientrata con un sacco di cose. Ad occhio e croce non riusciremmo a finirle tutte neanche se ce ne stessimo rintanati un mese. Nel disastro siamo tutti sulla stessa barca e ci si dà una mano con l’altro. Ciò mi dà un senso di gratitudine, oltre che di calore.
Ma proprio mentre finivo di scrivere questo blog, ho sentito la notizia che è morto Li Wenliang. Era uno degli otto medici redarguiti dalle autorità, che poi alla fine si era preso il coronavirus. In questo momento tutti gli abitanti di Wuhan piangono, e io mi sento troppo triste.
Traduzione di Marco Fumian (si prega di non riprodurre le pagine del diario in altri siti)