Nel 1980, PBS (la TV pubblica americana) produsse una serie in cui l’economista Milton Friedman descriveva le meravigliose promesse di quella che ora chiamiamo l’economia neoliberista. Nel primo episodio (The Power of the Market), il fondatore della “Chicago school” viene filmato mentre si aggira per le strade di Hong Kong, la città che definisce “almost a laboratory experiment of what happens when government is limited to its proper functions and leaves people free to pursue their own objectives”. A Hong Kong, Friedman spiega, rapito, non ci sono dazi e restrizioni, il capitale si muove liberamente, e ogni individuo può autonomamente mettere le sue abilità a disposizione del perfetto meccanismo del mercato. Non esiste sfruttamento a Hong Kong, perché ognuno è libero di lasciare il lavoro che ha e di trovarne un altro: “free to choose” era appunto il titolo della serie. Nell’intero video, Friedman evita accuratamente di menzionare una particolarità di Hong Kong: quella di essere una colonia, in cui alla grande maggioranza della popolazione è negato ogni diritto alla partecipazione politica, e in cui la stratificazione su base etnica o di classe è pervasiva e determinante.
A riguardare il video nelle circostanze odierne, l’analisi di Friedman appare ridicola, semplicistica, e fondamentalmente immorale, ma è, ciononostante, rivelatoria. Nell’omettere ogni riferimento al colonialismo, Friedman inavvertitamente svelava la caratteristica fondamentale di Hong Kong all’epoca, quella di essere un luogo funzionale al capitale, dove l’assenza di libertà politica corrispondeva – e garantiva – il massimo di libertà economica. Il tanto celebrato stato di diritto teoricamente prodotto dalle leggi coloniali era appunto necessario per il funzionamento del mercato, per la validità dei contratti. Non per garantire diritti politici, individuali o collettivi.
Questa situazione permane di fatto tutt’oggi.1)Ho elaborato questa argomentazione in dialogo con Rebecca Karl, e le sono debitore. Nel passaggio di Hong Kong alla RPC nel 1997, minime misure di partecipazione democratica vennero conquistate con fatica, ma il sistema politico e legale rimasero completamente asserviti al funzionamento del mercato. Oggi, come allora, Hong Kong è in cima alle classifiche dei luoghi più “liberi” al mondo, stilate da think tank neoliberisti; visto che anche il minimo diritto di eleggere rappresentanti è fortemente limitato, è ovvio che queste classifiche non misurano alcuna libertà politica – in questo senso, la richiesta di suffragio universale da parte dei dimostranti è allo stesso tempo minima e radicale. Nel 1997, molti osservatori occidentali pronosticarono che il ritorno di Hong Kong avrebbe cambiato la Cina, spingendola ad adattarsi al modello dell’ex-colonia. Questa teoria si basava sull’idea – totalmente infondata – che capitalismo e democrazia liberale fossero inesorabilmente connessi, e che quindi il ritorno della colonia, fulcro del capitalismo mondiale, avrebbe costretto la Cina ad accelerare le riforme, forzandola a diventare più “come Hong Kong”, e quindi più “come noi”. Di fatto, la Cina è diventata davvero “come Hong Kong”, nel senso che la stessa separazione fra libertà economica e libertà politica è oggi alla base del regime del Partito Comunista Cinese. A ben vedere, il presagio di “un paese, un sistema” si è dunque già realizzato.
Daniel Elam ha giustamente rimarcato come analisi che presentano le proteste di Hong Kong come uno scontro fra comunismo e liberalismo sono palesemente assurde e dimostrano una completa mancanza di comprensione delle due realtà e della loro relazione. Penso invece che le proteste di Hong Kong riflettano – in maniera polisemica e complessa – una crisi all’interno del capitalismo, nello specifico l’esplosione della tensione fra, da un lato, affermazioni di soggettività politica e desiderio di partecipazione e, dall’altro, un sistema che reprime sistematicamente queste aspirazioni in nome della libertà di mercato. In questa prospettiva, Hong Kong, per la sua posizione storica al centro del capitalismo globale, è uno dei punti focali di questa crisi. Ma è una crisi che va ben al di là di quei confini, e coinvolge la Cina intera. Anzi, Hong Kong è parte di una crisi davvero globale. Non è un caso che le proteste siano esplose recentemente in Cile, un paese afflitto da decenni di esperimenti neoliberisti, guidati dagli allievi di Milton Friedman. E credo sia possibile interpretare fenomeni apparentemente disparati come Brexit e la crescita delle destre europee come reazioni sguaiate e pericolose alla deriva corporativista e finanziaria dell’Europa unita. In questo contesto, il motto “liberate Hong Kong, the revolution of our time” (光復香港時代革命) è preciso, non perché, come scrive bene Elam, “offra una visione per la rivoluzione, ma perché rivela un’accurata valutazione da parte dei dimostranti di cosa sia ‘nostra epoca’.”
I dimostranti di Hong Kong sono stati criticati da più parti, e soprattutto da “sinistra”. Il movimento non ha prodotto nessun tentativo sistematico di integrare i più poveri e i più oppressi – domestiche straniere, lavoratori precari sia locali che immigrati – o di presentare istanze che riflettano le disparità economiche della città. È difficile simpatizzare con quei manifestanti che sventolavano bandiere britanniche o chiedevano l’intervento (imperialista) di Donald Trump. Queste (ed altre) sono critiche più che giustificate ma non va dimenticato che si tratta di un movimento complesso, senza leader, fluido (be water), che continua a cambiare metodi e tattiche in risposta alla crescente repressione.2)Il collettivo Lausan ha prodotto e continua a produrre una serie di brillanti analisi delle varie anime del movimento. Chuang ha pubblicato sia ottimi reportage (“da sinistra”) sulle proteste di Hong Kong che inchieste su scioperi e manifestazioni di operai nella RPC. Indi, continuiamo pure a criticarne gli errori, gli infantilismi, le sviste politiche: ma cerchiamo di non dimenticare che quel che succede a Hong Kong ci riguarda tutti. Non perché sia rappresentativo di universali aspirazioni democratiche o di una generica lotta anti-totalitaria, ma perché segnala una crisi profonda, in cui Hong Kong e l’intera Cina – ma anche Santiago, La Paz, e Londra – sono solo i nodi più evidenti.

Immagine: Hong Kong, da Wikimedia Commons.

Fabio Lanza è professore di storia della Cina moderna presso l’Università dell’Arizona. Fra le sue ricerche, incentrate soprattutto sullo studio dell’attivismo politico e dello spazio urbano nella Cina del Novecento, si segnalano i volumi Behind the Gate. Inventing Students in Beijing (New York: Columbia University Press, 2010) e The End of Concern: Maoism, Activism and Asian Studies (Durham: Duke University Press, 2017).

 

 

References
1 Ho elaborato questa argomentazione in dialogo con Rebecca Karl, e le sono debitore.
2 Il collettivo Lausan ha prodotto e continua a produrre una serie di brillanti analisi delle varie anime del movimento. Chuang ha pubblicato sia ottimi reportage (“da sinistra”) sulle proteste di Hong Kong che inchieste su scioperi e manifestazioni di operai nella RPC.