…non soltanto l’uomo non è il centro dell’universo, ma l’universo non è fatto per l’uomo, è ostile, violento, strano. Nel cielo non ci sono Campi Elisi, bensì materia e luce distorte, compresse, dilatate, rarefatte in una misura che scavalca i nostri sensi e il nostro linguaggio. Ad ogni anno che passa, mentre le cose terrestri si aggrovigliano sempre più, le cose del cielo inaspriscono la loro sfida: il cielo non è semplice, ma neppure impermeabile alla nostra mente, ed attende di essere decifrato. La miseria dell’uomo ha un’altra faccia, che è di nobiltà; forse esistiamo per caso, forse siamo la sola isola d’intelligenza nell’universo, certo siamo inconcepibilmente piccoli, deboli e soli, ma se la mente umana ha concepito i buchi neri, ed osa sillogizzare quanto è avvenuto nei primi attimi della creazione, perché non dovrebbe saper debellare la paura, il bisogno e il dolore?1)Primo Levi, La ricerca delle radici (Torino: Einaudi, 1981, 229).

1. Natura, uomo, cultura e violenza

Una premessa, in forma di quesito, si pone a monte di ogni considerazione sul rapporto tra uomo e natura: l’essere umano rappresenta forse un’esperienza unica, peculiare, nel cosmo?
La domanda genera una serie di riflessioni a catena su cui si sono soffermati, per millenni, i principali pensatori e le principali correnti di pensiero cinesi, nel tentativo di definire i termini di una relazione così complessa e intricata che ha dato luogo a rappresentazioni plurime, anche contraddittorie, al di là della prevalenza di un quadro analogico-correlativo dal quale emerge come le due dimensioni – quella umana e quella naturale – si riflettano l’una nell’altra, secondo una serie di rispondenze e di simmetrie pressoché perfette. Ciò significa, forse, che la risposta definitiva sia, di fatto, già data? Ovvero che l’organicismo analogico-correlativo che, secondo molti critici, avrebbe prosperato per millenni in Cina sia davvero il quid che ha assicurato il consolidamento di una visione armoniosa tra uomo e natura? Ma cosa s’intende, in questa sede, con “Natura”? Ritengo che la definizione offerta da Edward O. Wilson soddisfi, per chiarezza e autorevolezza, le nostre richieste:

La risposta più semplice possibile è anche la migliore: la natura è quella parte dell’ambiente originale e delle sue forme di vita che è sopravvissuta all’impatto con l’uomo. Natura è tutto ciò che nel pianeta Terra non ha bisogno di noi e può esistere indipendentemente da noi.2)Edward O. Wilson, La creazione (ed. it. Milano: Adelphi, 2006), 26-27.

Anticipiamo che la nostra indagine si limita a un esame delle fonti risalenti alla seconda fase del periodo Zhou (1045-256 a.C.) – divisa nei periodi delle Primavere e Autunni (770-453 a.C.) e degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) – fino alle prime due dinastie imperiali: quella dei Qin (221-206 a.C.) e quella degli Han Occidentali (206-a.C. – 9 d.C.).
Nello Shangshu 尚書 (Venerabili documenti, testo noto anche come Shujing 書經, Classico dei Documenti), il Cielo, o “Firmamento” (Tian 天), e la Terra (Di 地) sono definiti padre e madre dei Diecimila esseri (wanwu萬物), tra i quali l’uomo si distingue poiché dotato di una natura spirituale e numinosa (ling 靈, Shangshu 27/23/13). Questo primo segno di  differenziazione rispetto al resto del creato è ulteriormente marcato nel Mozi  墨子 (Il Libro del Maestro Mo, compilato tra il IV e II secolo a.C.), secondo cui l’uomo:

… è fondamentalmente diverso dalle bestie, siano esse cervi, volatili o insetti, per i quali piume e pellicce fungono da indumenti, zoccoli e zampe articolate da calzari e sandali, fonti d’acqua ed erba sono bevande e cibo. Ciò fa sì che essi dispongano già delle risorse da cui trarre cibo e vesti, senza che i maschi debbano lavorare la terra e senza che le femmine siano costrette a tessere o a filare. Gli esseri umani, invece, sono ben diversi da queste creature, poiché solo quanti s’impegnano con forza e tenacia (li 力) sopravvivono, mentre gli altri sono destinati a soccombere. (Mozi 55/32/30-33)

Senza sposare gli assunti filosofici di base del Mozi, il Xunzi 荀子 (Il Libro del Maestro Xun) conferma la convinzione circa l’eccezionalità dell’uomo, creatura votata a intervenire per trasformare nel profondo il proprio habitat. Il testo incarna il pensiero di Xun Qing 荀卿 (circa 310-230 a.C.), intellettuale riconducibile alla complessa costellazione dei Ru 儒, i cosiddetti “classicisti”, dei quali Confucio (circa 479-551 a.C.) fu eletto a più insigne rappresentante. Il Xunzi esalta l’apporto di quei saggi sovrani dell’antichità che furono capaci di istituire i li 禮, le esemplari norme di comportamento rituale su cui fondare un impianto etico teso a esaltare l’eccellenza morale, elemento peculiare della nostra specie. La natura umana (xing 性), in sé ingorda e incline alla conflittualità e all’egoismo, è in grado di esprimere una bontà derivante dall’acquisizione di valori morali “contro-natura”, dettati dall’acquisizione consapevole (wei 偽) di modelli di condotta che discendono da un lungo e faticoso apprendistato che porta i soggetti sapiens a cambiare letteralmente pelle, a trasformarsi radicalmente (hua 化) e a esercitare, così, la propria vera vocazione, distinta rispetto alle altre specie, che consiste nel “tracciare distinzioni” (bian 辨):

Acqua e fuoco sono pervasi da energia (qi 氣), pur non essendo animati dalla vita (sheng 生). Piante e alberi, invece, lo sono, pur mancando loro la facoltà di cognizione (zhi 知), mentre le bestie dispongono, sì, di cognizione, ma prive sono del senso di ciò che è appropriato (yi 義). Ebbene, il fatto che gli uomini siano dotati di energia, di vita, di cognizione e, in più, anche del senso di quel che è appropriato, li rende indubbiamente i più nobili esseri Sotto il Cielo. In quanto a forza (li 力), non possono certo competere con i buoi, né in celerità con i cavalli, ma le qualità di buoi e cavalli finiscono per diventare risorse al servizio degli uomini. Come è possibile? Io vi dico che ciò dipende dalla nostra capacità di aggregarci in comunità complesse (qun 群), cosa che gli altri esseri non sono in grado di fare. In che modo gli uomini sono in grado di aggregarsi in comunità complesse? Operando una differenziazione (fen 分) della popolazione in classi sociali. In che modo è possibile mettere efficacemente in atto il processo di divisione in classi? Grazie al senso di appropriatezza morale (yi). Pertanto, agire in conformità con il principio di appropriatezza morale per differenziare la popolazione in classi sociali porta alla concordia e all’armonia (he 和) e, quand’è così, l’unità regna, tant’è che, in condizioni simili, lo sforzo prodotto dal tenace lavoro (li 力) accresce fino a sprigionare una potenza (qiang 彊) tale da sopraffare ogni cosa al mondo. È questo che ci rende capaci di edificare palazzi e dimore dove risiedere al sicuro. Vi è un solo motivo che fa sì che gli uomini riconoscano una sequenza precisa nel susseguirsi ciclico delle Quattro stagioni, distinguano opportunamente le differenze tra i Diecimila esseri al fine di controllarli e, indistintamente, rechino beneficio a quanto risiede Sotto il Cielo: tutto ciò dipende dall’aver istituito un sistema sociale in cui la divisione della popolazione in classi risponde ai principi dell’appropriatezza morale. (Xunzi 9/16/4)

Il benessere del popolo e la stabilità sociale dipendono, pertanto, dall’immissione di un preciso elemento, estraneo all’impulso vitalistico e indomabile caratteristico del mondo naturale: la moralità, appunto. Il Xunzi s’inserisce a pieno titolo in quella tradizione che, fin da tempi antichissimi, si è soffermata sulle ragioni alla base della costruzione di uno spazio umano distinto da quello naturale. Le narrazioni relative all’edificazione fisica e, insieme, culturale di un paesaggio antropico sono precedute da una condizione primordiale di disordine (luan 亂, che si oppone alla cosmesi ordinata identificata di norma da zhi 治), meglio di caos o “indifferenziazione” (huntun 混屯) o anche di “profonda oscurità” (ming ming 冥冥) da cui è emersa prima la pluralità delle creature che caratterizza il mondo fenomenico nel suo insieme – ovvero i Diecimila esseri (wanwu) – e, per ultima, la società umana. Mark Lewis3)Mark Edward Lewis, Writing and Authority in Early China (Albany: State University of New York, 1999), 124-127, 198-202, 280-281; Ibid., The Construction of Space in Early China (Albany: State University of New York, 1999), dove il tema del caos è ricorrente; si veda, inoltre, Marc Kalinowski, “Mythe, cosmogénèse et théogonie dans la Chine ancienne,” L’Homme 137 (Jan.-March 1996), 41-60. identifica alcuni testi che incarnano questa matrice cosmogonica secondo la suddetta sequenza: si tratta del capitolo d’apertura del Wenzi 文子(Il Libro del Maestro Wen) receptus, dal titolo Daoyuan 道原 “Le origini del Dao”, della sezione Yuan Dao 原道 (Il Dao originario) dello Huainanzi (Il Libro dei Maestri di Huainan), del capitolo Zhu Dao 主道 (Il Dao del Sovrano) dello Hanfeizi 韓非子 (Il Libro del Maestro Hanfei) e, infine, delle sezioni Dao fa 道法 (Il Dao in quanto modello normativo) e Guan 觀 (Investigazioni scrupolose) del testo su seta rinvenuto a Mawangdui 馬王堆 all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso identificato dai più con lo Huangdi sijing 黃帝四經 (Quattro scritture canoniche dell’Imperatore Giallo). A queste opere ci preme aggiungerne altre due, in forma manoscritta, simili per certi versi alle precedenti nella trattazione del processo cosmogonico: si tratta del cosiddetto Taiyi sheng shui 太一生水 (L’Uno Supremo generò l’acqua), scoperto nel 1993 a Guodian 郭店, e lo Hengxian 亙(恆)先 (L’Eterno primigenio), acquisito dal Museo di Shanghai nel 1994. Queste opere descrivono un caos informe e limaccioso all’inizio dei tempi, dal quale emersero uno a uno gli oggetti fisici, attraverso una successione progressiva, talvolta descritta in termini matematici come la scissione dell’unità primigenia in due, poi in tre o in quattro, per culminare nella formazione della moltitudine degli esseri. Si pensi, ad esempio, a quanto riportato dalla stanza 42 del Laozi 老子 (Il Libro del Vecchio Maestro, meglio noto, forse, come Daodejing 道德經), che recita “Il Dao generò l’Uno / E dall’Uno furono Due / E dal Due, Tre / E, dal Tre, i Diecimila esseri trassero vita”, pericope che riecheggia nel Fan wu lui xing 凡物流形 (Le cose, tutte, passano di forma in forma), un testo di cui sono sopravvissuti solo due testimoni manoscritti entrati in possesso del Museo di Shanghai, databili intorno al 300 a.C, che così recita: “L’Uno generò il Due, il Due generò il Tre, il Tre generò l’elemento femminino, capace di legare tra loro le cose” (listarella 21).
A operare questa progressiva frantumazione dell’unità primigenia non sono gli uomini, sebbene questi, attraverso l’opera invasiva e destabilizzante del linguaggio (ming 名), dispongano di uno strumento tanto eversivo – quanto necessario – capace d’imporre sul mondo un ordine arbitrario, fasullo. Stando allo Shuowen jiezi 說文解字 (Delucidazione sui pittogrammi e spiegazione dei caratteri), dizionario etimologico del I secolo, ming 名 (nominare, assegnare designazioni) significa ‘dichiarare la propria identità (zi ming 自名)’. Deriva da “bocca” (kou 口) e da “imbrunire” (xi 夕). All’imbrunire, infatti, calano le tenebre (ming 冥) e non è più possibile scorgersi l’un l’altro, ragion per cui, a voce, si dichiara il proprio nome”. Come ribadisce lo Shi ming 釋名(Spiegazione del significato dei nomi), opera del II secolo circa, ming 名“nominare” significa ming 明 “rischiarare, portare alla luce, gettare luce su”, ovvero nominare le cose perché risultino chiaramente distinguibili”. Ebbene, il sospetto è che il mondo non antropizzato sarebbe – oppure “è”, almeno in quei pochi spazi fortunatamente a noi preclusi in questo pianeta – un mondo ai nostri occhi oscuro, immerso nelle più tetre tenebre, indifferenziato, fatto di un continuum indistinto di non-cose, in sé refrattario al linguaggio divisivo. Lo Hengxian ribadisce come “nell’antico primordio, il bene regnava, poiché l’ordine vigeva e assente era il disordine. Comparsi gli uomini, il bene cessò: il vero disordine da loro sorge” (xianzhe you shan yuo zhi wu luan you ren yan you bu shan luan chu yu ren 先者有善,有治無亂,有人焉有不善,亂出於人). Fa riflettere come lo Hengxian, al pari di altri testi tra cui ad esempio il Laozi e il Zhuangzi 莊子(Il Libro del Maestro Zhuang), evidenzi come vi siano due livelli diversi di “disordine”: il primo riflette la condizione di somma indeterminatezza e indifferenziazione di un cosmo non ancora antropizzato, paradossalmente in sé più ordinato (zhi 治) rispetto alla forma che il mondo assume a seguito dell’intervento invasivo dell’uomo, portatore di un’inaudita perturbazione degli assetti naturali. Nel primo caso siamo di fronte a una “con-fusione” degli esseri non ancora percepiti come entità scisse dall’unità originaria, all’interno di una dimensione che esprime un valore concreto di bontà (shan 善), ovvero di conformità piena alle leggi naturali; nel secondo caso si assiste, invece, alla riduzione della complessità del cosmo a una rappresentazione edulcorata a uso e consumo degli uomini, che pianificano, attraverso il linguaggio, la violenza da esercitare su quello che, nel Laozi, viene detto pu 樸, “il ceppo di legno” grezzo e disadorno non ancora intaccato dalla scure, emblema della ruvida purezza del Dao 道.
Sollecitati dal passo dello Hengxian e dal Laozi, viene spontaneo richiamarsi di nuovo a Wilson:

Il potere distruttivo di Homo sapiens non ha limiti, anche se la nostra biomassa è praticamente insignificante. Sarebbe matematicamente possibile concentrare tutta la popolazione mondiale in un volume di qualche chilometro cubo, prendere questa massa e nasconderla alla vista in qualche remota vallata del Grand Canyon. Ma l’umanità è anche la prima specie nella storia della vita a diventare una forza geofisica. Sul nostro barcollante bipedismo, abbiamo alterato l’atmosfera terrestre e l’equilibrio climatico globale. Abbiamo immesso nell’ambiente migliaia di composti chimici tossici, ci siamo appropriati del 40 per cento dell’energia solare resa disponibile dalla fotosintesi, abbiamo convertito quasi tutta la terra arabile in terreno agricolo, condannato la maggior parte dei fiumi, aumentato il livello del mare sul pianeta e ora, una cosa che tra non molto nessuno potrà ignorare, stiamo esaurendo le riserve di acqua dolce. Un effetto collaterale di tutta questa frenetica attività è la progressiva estinzione degli ecosistemi naturali, con le specie che li costituiscono. E questo è anche l’unico impatto umano che è totalmente irreversibile.4)Wilson, La creazione, 26-27.

Una volta approdate al mondo fenomenico, le narrazioni cosmogoniche cinesi antiche sembrano cancellare il caos primordiale, che, tuttavia, sopravvive in forma latente, sospeso sul fondo dell’abisso dell’esistenza umana come risorsa, come richiamo ineludibile, bacino di eterna e infinita potenzialità cui il Saggio attinge per alterare e sovvertire il presente, spazialmente e culturalmente organizzato. Il caos, in aggiunta a ciò, rimane una costante minaccia di dissoluzione universale, evocata puntualmente dalle fonti nei momenti in cui il tentennamento dei principi che hanno forgiato l’ordine si fa più forte. Dunque, lo spettro del “caos” (luan), che ha perseguitato l’immaginario cinese per millenni, convive parallelamente con la sua forza inesauribile di vitalità e possibilità aperte dell’essere.
La formazione di uno spazio strutturato a partire dal caos è stata anche descritta negli antichi testi cinesi come fase successiva a un’epoca in cui umani e animali vivevano uniti.5)Si vedano i capp. 1, 3 e 5 del Xunzi. Le fonti sono pressoché concordi nell’imputare a figure esemplari di saggi e a eroi culturali l’introduzione di innovazioni tecniche e di standard etici per separare il mondo regolato e ordinato, quello che definiremmo κόσμος, da un dominio naturale cui la comunità antropica sentiva pressante la necessità di distanziarsi definitivamente.6)Lewis,Writing and Authority, 127-129. Simili narrazioni, ancor più dei resoconti cosmogonici, presentano un modello di costruzione della società umana attraverso la progressiva e ordinata distribuzione spaziale di oggetti ed elementi “culturali” all’interno di comunità ispirate a norme di convivenza civile sempre più complesse. In altri termini, le cosmogonie e le teorizzazioni sulla separazione degli umani rispetto al resto degli animali vanno intese come fasi parallele di un più ampio processo di articolazione dello spazio che, al contempo, è politico-sociale e sacro.
Come già evidenziato chiamando in causa il Xunzi, le più rappresentative riflessioni sul rituale (li) insistono proprio sulla necessità d’imporre distinzioni, poiché è solo grazie alla separazione tra i generi, così come tra giovani e anziani, tra sovrano e sudditi e tra colti e ignoranti, che tali dispositivi normativi hanno permesso l’aggregazione sociale e l’affermarsi di gerarchie finalizzate al consolidamento della virtù e al conseguimento della prosperità dello stato.7)Simili considerazioni emergono ampiamente nei capitoli 1, 4, 6, 9, 19 del Xunzi, così come nel capitolo d’apertura del Mozi, nel capitolo 17 del Guanzi  管子 (Il Libro del Maestro Guan), nei capitoli 11 e 20 dello Huainanzi e, soprattutto, nel Liji 禮記 (Memorie sui riti),  in particolare nei capitoli 13, 26, 32, 34, 37, 49, 50, 51, 61. Se mai venisse meno il rispetto per le norme tradizionali di comportamento rituale e tali distinzioni tra la popolazione fossero abbandonate, ecco che la società sprofonderebbe nel caos indifferenziato, lasciando il sopravvento ad altre specie animali non-umane. Alcune fonti cinesi antiche, in più, sviluppano argomentazioni simili a sostegno della funzione dell’impianto giuridico, eletto a barriera contro la barbarie, sempre a garanzia di quelle opportune divisioni gerarchiche a tutela esclusiva della sopravvivenza della società umana.8)Si rimanda, a tal riguardo, a tre studi di Robin D. S. Yates, “Body, Space, Time and Bureaucracy: Boundary Creation and Control Mechanisms in Early China”, in John Hay, a cura di, Boundaries in China (London: Reaktion Books, 1994), 56-80; “Cosmos, Central Authority, and Communities in the Early Chinese Empire,” in Susan E. Alcock et al. (a cura di), Empires (Cambridge: Cambridge University, 2000), 360-368; “Purity and Pollution in Early China,” in Integrated Studies of Chinese Archaeology and Historiography, Symposium Series of the Institute of History and Philology, Academia Sinica 4 (1997), 479-536.
Forse, volendo rispondere alla fatidica domanda inziale, l’uomo incarna davvero un’anomalia. Un’anomalia aporetica sospesa tra l’appartenenza al mondo naturale e l’impossibilità di vivere un’esistenza pacifica tra Cielo (Tian 天) e Terra (Di 地), quelle forze cosmiche che lo hanno generato e che, suo malgrado, egli non può che tradire.

1. Organicismo e correlativismo: soluzioni o cause del problema?

Le varie tradizioni di pensiero cinesi che hanno esaltato la normatività dei principi su cui si reggono i cicli del Cielo (Tian Dao 天道, o Tian Di zhi Dao 天地之道, i cicli propri di Cielo e Terra) come guida per indirizzare la strutturazione della società umana in modo conforme all’assetto del cosmo, non sempre si sono soffermate sull’impatto profondo che l’antropizzazione reca nei confronti della Natura, sulla falsariga di quanto invece affermato dallo Hengxian. Si tratta di un punto decisivo, poiché tocca un nodo cruciale legato alla cosiddetta “cosmologia correlativa”, ovvero quell’orizzonte ontologico che meglio contraddistingue il pensiero cinese e che si è gradualmente consolidato a partire dalla dinastia Zhou fino a configurarsi, sotto gli Han, come sistema interpretativo totalizzante, efficacissimo ai fini della legittimazione del potere. In altra sede9)Rinviamo al contributo di Attilio Andreini, Sulla Via della Catai, 2018/1, in corso di stampa. abbiamo già evidenziato come la tenace affermazione di una complementarietà tra dimensione naturale e dimensione umana da inquadrare all’interno di un orizzonte condiviso e armonioso sia stata pagata a caro prezzo. Il prezzo da pagare si è risolto in un sensibile ridimensionamento dell’autorevolezza etica e dello spessore ontologico dell’uomo a fronte di una sua più o meno forzosa integrazione in un mondo al quale egli avrebbe partecipato, sì, a pieno titolo, ma non certo da arbitro, né come perno. Tale integrazione si rivelava “necessaria” poiché decretata da Tian 天 “Cielo” o Tian Di 天地 “Cielo e Terra”, le entità che, stando ai valori tradizionali cinesi, meglio si qualificano ad essere assimilate alla “Natura”, intesa come natura naturans o naturante. In sé, il superamento di una dimensione antropocentrica avrebbe potuto costituire almeno un primo passo verso la relativa conciliazione tra uomo e natura. In realtà, la questione è molto più complessa, in quanto l’affermazione di una dimensione analogico-correlativa come quella consolidatasi in Cina ha sovente prestato il fianco, nel nome dei sommi valori dell’armonia e dell’unità, a ripetute violenze e atti arbitrari, anziché garantire la difesa delle istanze naturali come presupposto imprescindibile in vista della piena realizzazione della sopravvivenza umana accanto a quella delle altre specie. Su questi temi si è pronunciato più volte Mark Elvin,10)Mark Elvin, “Three thousand years of unsustainable growth: China’s environment from archaic times to the present”, East Asian History, 6, 1993, 7-46; “The Environmental Legacy of Imperial China”, The China Quarterly, 156, Special Issue: China’s Environment, 1998, 733-756; The Retreat of the Elephants: An Environmental History of China (New Haven: Yale University Press), 2004; “Social Rights to the Use of Nature”, Environmental History, Vol. 10, 4, 2005, 684-686. che ha efficacemente evidenziato come nell’arco della storia cinese la salvaguardia delle prerogative dettate da visioni olistiche e correlative sia stata ripetutamente piegata alle ragioni di Stato, soprattutto per soddisfare mire espansionistiche e per allestire azioni militari che richiedevano lo sfruttamento massiccio di risorse naturali.
Eppure, sul piano delle premesse ideologiche, la cosmologia correlativa si rivela, a prima vista, come una palese e felice sintesi tra macrocosmo e microcosmo. Essa, infatti, prevede dapprima una mappatura analogica del mondo a partire dalla categorizzazione bipolare yinyang 陰陽, che definisce sequenze di coppie di termini opposti e complementari, unita a una visione secondo cui i fenomeni rispondono a processi ciclici di permutazione perenne del qi 氣, ovvero la sostanza energetica, il soffio vitale psicofisico che tutto permea.
Sul piano ideologico e, dunque, concreto, l’integrazione tra micro e macrocosmo porta all’abbattimento di precise barriere, barriere che, sfaldandosi, non sempre però hanno prodotto un effettivo adeguamento del comportamento umano alle leggi di Natura. La trasposizione delle dinamiche celesti e degli automatismi naturali sul piano politico professata, ad esempio, da testi come lo Hanfeizi, così come il progressivo configurarsi di una visione analogico-correlativa capace di fornire presupposti universali a garanzia della totale inclusione dell’attività umana nella dimensione cosmica e divina, sono riusciti a rendere macrocosmo e microcosmo congrui solo parzialmente. Ciò, forse, è dovuto proprio alle premesse dell’impianto analogico-organicistico stesso. Partendo dall’esistenza di una sostanza psicofisica universalmente pervasiva, il qi, il cosmo si prospetta come scenario infinito in cui i fenomeni sono interconnessi grazie al suddetto medium, il quale, però, oltre a mettere in relazione realtà individuali contigue come organi di un unico grande organismo, può far sì che esse si compenetrino, fino a renderle indistinguibili. Da queste premesse, gli esiti derivativi di un correlativismo fin troppo riuscito – almeno stando alla rappresentazione ottimistica in numerose fonti cinesi – sono sostanzialmente due: l’integrazione tra Natura e uomo può portare all’abbattimento della barriera tra Natura e artificio, tanto quanto al superamento della distinzione tra umano e divino.
Procediamo secondo un ordine inverso e affrontiamo in prima battuta la questione relativa al discrimine tra umano e divino. Su questo ambito, la nozione di shen 神 gioca un ruolo determinante. Shen indica quelle entità spirituali che esercitano un’influenza diretta sui fenomeni naturali, ma anche una forma pura, limpida del qi umano, che dà luogo a specifiche qualità e specifici poteri. La ricchezza del riferimento di questo termine fa sì che esso rappresenti sia una dimensione extra-umana propria delle divinità sia una serie di caratteri che gli umani sono in grado di acquisire, almeno a certe condizioni, e che si risolve nell’esercizio di acutezza percettiva, perspicacia, conseguimento di una straordinaria salute fisica ed è tale da conferire a chi la custodisce poteri inauditi.11)Per una disamina più approfondita sulla questione relativa alla dimensione dello “spirito” e del “divino”, rinviamo ad Attilio Andreini, “Categorie dello ‘spirito’ nella Cina pre-buddhista”, in Maurizio Pagano (a cura di), Lo Spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture (Milano, Udine: Mimesis), 71-107. La tentazione forte è quella d’integrare le due accezioni e giungere alla conclusione che la spiritualità espressa da shen contempli una vicinanza strettissima tra umano e divino. Si legga, a tal riguardo, il seguente passo tratto dallo Huainanzi, che ripropone il tema della cosmogonia introducendo però nuovi elementi:

Nella notte dei tempi, prima che comparissero Cielo e Terra, v’era solo una figura senza forma distinta. Oscura, fosca, vasta e profonda – nessuno conosceva la sua porta d’accesso. Due divinità (shen), nate insieme, predisposero correttamente la volta del Cielo e orientarono le direzioni della Terra. Tanto vasta era [tale figura] che non se ne conoscevano limiti e confini! (…) In seguito, [i due spiriti] si scissero e divennero yin e yang, si separarono e divennero gli otto pilastri. Fu così che il duro e il molle si completarono l’un l’altro e i Diecimila esseri poterono, infine, acquisire una forma fisica definita. Il qi più torbido andò a costituire gli insetti, quello più puro gli uomini. (Huainanzi 7.1a)

Abbiamo già visto come la rappresentazione del cosmo più condivisa dalle fonti cinesi antiche preveda come ogni elemento sia parte di una continuità organicistica che sottostà a un incessante moto, spontaneo e, almeno in apparenza, auto-generato, “così-per-se-stesso” (ziran自然, come poco più avanti vedremo con maggior precisione). Stando al brano tratto dallo Huainanzi cui ci siamo appena sopra riferiti, va notato come la spontaneità dei processi cosmici cui abbiamo fatto cenno non sembra così piena, dato l’intervento decisivo di entità numinose (shen), divine. Più precisamente, i due spiriti menzionati nel testo, anziché essere demiurghi, sembrano quasi complici, facilitatori che precedono la comparsa dell’uomo. Questo punto preciso non deve portarci ad affermare categoricamente che dalla dimensione “numinosa, spirituale” (shen) l’uomo risulti escluso, in quanto lo stesso Huainanzi,12)Huainanzi, 4/33/17. ad esempio, concede proprio all’uomo la possibilità di diventare non solo immortale, bensì anche numinoso (shen, proprio come i due spiriti cui il passo citato in precedenza si riferisce), fino a renderlo capace di controllare gli agenti atmosferici. Così rappresentate, le leggi cosmiche paiono sovrintese da spiriti, che esercitano i propri poteri e così rendono possibile ogni processo cosmico. L’uomo, a ben vedere, è assimilabile a un adepto cui non sono precluse quelle stesse facoltà che contraddistinguono le divinità stesse. Si tratta di un dato di grande rilevanza, poiché propone un modello alternativo rispetto alla separazione tra uomini e divinità, suggerendo una visione del cosmo in cui entrambe le categorie partecipano al dispiegarsi del fenomeni e condividono attributi precisi, primo tra tutti shenming 神明, categoria che combina “spirito, divinità”, “numinoso” (shen) e “risplendere, illuminare”, “illuminato, brillante”, “perspicacia, chiaroveggenza” (ming 明). Sulla complessità delle implicazioni legate a shenming si sono soffermati numerosi studiosi, mettendo in evidenza l’attinenza tra questo concetto e questioni di natura religiosa, cosmologica ed epistemologica e giungendo a rese traduttive assimilabili a “intelligenza divina”, “dèi, divinità”, “conoscenza sovrumana” o “extra-umana”. L’incidenza di shenming in opere quali il Zhuangzi, il Guanzi, lo Heguanzi  鶡冠子 (Il Libro del Maestro Heguan, IV-II secolo a.C.) e lo Huainanzi è assai elevata, a conferma del fatto che siamo di fronte a un termine assai dibattuto tra le principali correnti di pensiero, tra cui i Ru, come dimostrato dalla sua trattazione nel Xunzi, nello Xiaojing 孝經 (Scrittura canonica sul rispetto dei doveri filiali) e nel Liji.
Sempre mantenendo un’attinenza con la questione relativa alla riduzione dello scarto tra umano e divino, Michael Puett13)Michael Puett, To Become a God: Cosmology, Sacrifice, and Self-Divinization in Early China (Cambridge, Mass: Harvard University Asia Center), 2002. ha espresso la convinzione che il rito sacrificale definisca un evento trasformativo volto a far sì che alcuni esseri umani diventino degli “spiriti”, ma non tanto per un semplice principio evemeristico, quanto per assoggettare gli spiriti stessi al rispetto di un sistema normativo teso a legittimare forme di dominio tanto sugli uomini quanto sulla natura.
Passiamo, ora, a proporre una serie di riflessioni legate al tema del confronto tra Natura e artificio. La prima considerazione da fare è che nel contesto cinese antico prevale una visione marcatamente organicista, nella quale la finalità è emergente, prima ancora che immanente, e non eterodiretta, né estrinseca. In tal senso, ziran 自然, termine  che in cinese moderno viene immediatamente associato alla dimensione della natura (daziran 大自然 è, oggi, la parola con cui s’identifica il mondo naturale, la Natura in senso lato) può aiutarci nel nostro approfondimento. Se guardiamo attentamente all’uso di questo termine nelle fonti, anche quelle che sembrano esaltare in modo marcato il valore normativo di un’adesione alla “via secondo Natura”, ne risulta che esso non era impiegato nell’accezione di “Natura” o “mondo naturale”. Ziran si compone di un sostituto riflessivo, zi 自, che determina ran 然, sostituto verbale che significa “così è”, “assimilabile a ciò”: dunque, ziran esprime un “essere tale, così, di per sé”. Risulta ovvio come questa nozione, col tempo, sia stata impiegata per indicare il modo in cui i fenomeni naturali sono tali in modo spontaneo, naturale, appunto, poiché “auto-così”. Come abbiamo anticipato, però, le fonti ci riferiscono qualcosa di diverso, poiché nell’antichità l’uso di ziran non si riferiva tanto alla Natura né, strettamente, alla dinamica che fa sì che il corso dei fenomeni naturali sia quello che è. Ziran è spesso slegato dai processi di quello che noi identifichiamo oggi con il mondo della Natura e si riferisce, piuttosto, al semplice automatismo che fa sì che le cose, partendo da determinate condizioni, diano luogo a esiti prevedibili e, spesso, auspicabili.  Auspicabili, in realtà, perché frutto di automatismi che tagliano fuori l’elemento soggettivo – e, pertanto, parziale – del giudizio umano, non tanto perché in sé “giusti”.  A voler essere pignoli, anche il seguente passo del Zhuangzi potrebbe prestarsi a qualcosa di ben più “sofisticato” della consueta lettura che mette in contrapposizione le tradizionali norme di comportamento rituale (li) e la genuina autenticità (zhen 真) di un’adesione al mondo che non risponde a disposizioni culturalmente determinate ma si confà a ciò che viene dettato dal Cielo e, in quanto “naturale” (ziran), è spontaneo e sincero:

Le tradizionali norme di comportamento rituale sono il prodotto dei costumi sociali che caratterizzano le epoche storiche. L’autenticità esprime il modo in cui si risponde al mondo secondo ciò che riceviamo dal Cielo: indica qualcosa di spontaneo, naturale (ziran) e inalterabile. Il Saggio, pertanto,  prende a modello il Cielo e dà sommo valore all’autenticità, senza lasciarsi imbrigliare da ciò che è dettato dai costumi sociali. Lo stolto fa l’esatto contrario. (Zhuangzi 31/2/9)

Poniamo però il caso che ziran significhi il semplice dato di fatto che rende tale quel che è e, in quanto “così”, appunto, esso non rinvia ad altro se non a se stesso:

Le tradizionali norme di comportamento rituale sono il prodotto dei costumi sociali che caratterizzano le epoche storiche. L’autenticità esprime il modo in cui si risponde al mondo secondo ciò che riceviamo dal Cielo. Così stanno le cose (ziran) e, in quanto tali, esse non possono subire alcuna alterazione. Il Saggio, pertanto, prende a modello il Cielo e dà sommo valore all’autenticità, senza lasciarsi imbrigliare da ciò che è dettato dai costumi sociali. Lo stolto fa l’esatto contrario.

Certe fonti sembrano suggerire che non esiste altra finalità se non quella che, emergendo, dà luogo a ciò che così è e che non sarebbe potuto essere altrimenti. La stanza 25 del Laozi ne è un esempio fulgido: “Il Dao ha per modello ciò che così è, da sé (Dao fa ziran 道法自然)”.

Il fatto è che alla realizzazione di ciò che è inevitabilmente tale, e dunque ziran “automatico”, non sempre partecipa esclusivamente la Natura, o Tian il “Cielo”. Inoltre, fare dell’automatismo in sé un valore rischia di adombrare l’apporto di quelle entità così autorevoli – il Dao, ad esempio, o lo stesso Tian – che, in quanto neutre, disinteressate (wuwei 無為), intervengono senza condizionamento alcuno. A meno che, però, non s’intenda con ziran proprio la modalità disinteressata dell’operatività delle succitate somme entità.
È comunque innegabile che anche l’uomo, in molti casi, partecipi all’attualizzarsi di determinati automatismi, che producono risultati non sempre in linea con le aspettative del Cielo, pagandone, ovviamente, le debite conseguenze, come ricorda Laozi 55: “Quel che contrario è al Dao, presto perisce”. Ma siamo certi che il passo in questione alluda davvero alla rovina che inevitabilmente deriva dall’andare contro Natura? Non sarà che, compiuta la normativizzazione della realtà così come è – il Dao – , quel che accade va semplicemente accolto di buon grado? Ma questa realtà così tanto “spontanea” e, pertanto, degna di apprezzamento, fino a che punto è davvero riuscita a sottrarsi alla contaminazione della parzialità umana, dell’arbitrio, della morale, dell’artificio? A ben vedere, sono numerosi i riferimenti testuali in cui s’invoca il ricorso a modelli normativi (fa 法) e sanzionatori (xing 刑) per riprodurre la stessa forma di automatismo (ziran) disinteressato (wuwei) – ovvero non dettato da predilezioni arbitrarie – che caratterizza il dispiegarsi del Dao nel cosmo: non si tratta, forse, di perfetti esempi di una forzata convergenza tra Natura e artificio?
Si considerino, alla luce di quanto appena rilevato, i seguenti passi tratti dallo Hanfeizi:

In un regno vige la stabilità perché l’adesione a determinati modelli normativi (fa) è assimilabile al nutrirsi quando si ha fame e all’indossare abiti pesanti quando si ha freddo. Quand’è così (ziran), non serve emanare ordini. (Hanfeizi 25.2.3)

Attenersi saldamente al principio secondo cui le cose sono quello che sono (ziran) consente di emanare ordini capaci di produrre effetti positivi senza fine. È sulla base di ciò che si può parlare di “Sovrano illuminato”. (Hanfeizi 28.1.4.)

Nel sancire la mancata aderenza tra ziran e un fondamento etico-normativo che, benché parziale e limitato, l’essere umano avrebbe pur dovuto incarnare in quanto anch’egli “creatura del Cielo”, l’ontologia cinese si è fatta scudo di automatismi emergenti per legittimare – in quanto effettive e, dunque, pienamente giustificate – tutte le concause che concorrono a produrre le condizioni dell’essere. Ziran, in parole povere, non esprime incondizionatamente la logica normativa di una fonte d’autorità che determina l’essere imprimendo il proprio volere, poiché non riflette, in senso stretto, la sintassi della legge di Natura. Ciò ha reso possibile disobbedire alla Natura, violandola, senza tuttavia opporsi a ziran.
Non stupisce che tali premesse fondative abbiano portato a giustificare in primis lo status quo, inteso quale condizione necessaria, ineludibile, derivante dall’emergere della totalità delle ragioni che determinano il mondo, un mondo in cui componente umana e componente naturale si compenetrano – o almeno così dovrebbero – nel rispetto di una stringente logica organicistica che, anziché condurre all’armonia, di fatto la impone. All’essere, così facendo, viene negato di poter esser stato e di poter diventare un “altrimenti” impossibile… Inteso, pertanto, come mero automatismo che produce ciò che è, e non tanto come ratio celeste, divina, come Natura che genera le cose in maniera incondizionata e autodeterminata, cioè libera, ziran produce l’insieme delle condizioni del presente e sancisce la convergenza tra dover essere ed essere.
Facevamo prima riferimento a quelle fonti che invocano una sottrazione progressiva dell’impatto dell’azione umana nel mondo, in modo da lasciare liberamente agire ciò che finalità non ha, ovvero il Dao, e che sarebbe comunque destinato a prevalere sulla volontà limitata e arbitraria degli uomini. Il Laozi e lo Hanfeizi possono essere portati a esempio di questo specifico orientamento. Vale tuttavia la pena ricordare quanto la storia dimostri come la trasposizione politico-culturale di simili prospettive abbia inesorabilmente condotto verso derive fortemente autoritarie, non certo preferibili a quanto malauguratamente imposto da un antropocentrismo radicale in cui è l’uomo a dettar legge. Ben venga, per carità, una ponderata delegittimazione dell’autorevolezza umana derivante dalla presa d’atto della finitudine dei sapiens, fosse anche quella del Figlio del Cielo… ma il rischio è che tali forme di delegittimazione diventino strumentali e finalizzate all’apertura di varchi interpretativi ancor più soggettivi e arbitrari nella comprensione delle somme volontà celesti.

Andreini, Madre, matrigna, complice, guida… PDF

Immagine: Long’an woodland, University city, Chongching, 2011, foto di Yan Wang Preston.

Laureato in Lingue e Letterature Orientali a Ca’ Foscari (1994), allievo di Maurizio Scarpari, Attilio Andreini ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Orientalistica nel 1999 presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli dopo aver trascorso soggiorni di ricerca negli Stati Uniti (University of California at Berkeley; University of Hawai’i at Manoa) e nella Repubblica Popolare Cinese (Peking University). Dal 1998 insegna all’Università Ca’ Foscari Venezia.
I suoi principali ambiti di ricerca interessano vari aspetti dell’universo culturale cinese antico, in particolare la genesi delle dottrine filosofico-religiose, la produzione dei testi e la trasmissione del sapere, toccando filologia, codicologia e paleografia.

 

References
1 Primo Levi, La ricerca delle radici (Torino: Einaudi, 1981, 229).
2 Edward O. Wilson, La creazione (ed. it. Milano: Adelphi, 2006), 26-27.
3 Mark Edward Lewis, Writing and Authority in Early China (Albany: State University of New York, 1999), 124-127, 198-202, 280-281; Ibid., The Construction of Space in Early China (Albany: State University of New York, 1999), dove il tema del caos è ricorrente; si veda, inoltre, Marc Kalinowski, “Mythe, cosmogénèse et théogonie dans la Chine ancienne,” L’Homme 137 (Jan.-March 1996), 41-60.
4 Wilson, La creazione, 26-27.
5 Si vedano i capp. 1, 3 e 5 del Xunzi.
6 Lewis,Writing and Authority, 127-129.
7 Simili considerazioni emergono ampiamente nei capitoli 1, 4, 6, 9, 19 del Xunzi, così come nel capitolo d’apertura del Mozi, nel capitolo 17 del Guanzi  管子 (Il Libro del Maestro Guan), nei capitoli 11 e 20 dello Huainanzi e, soprattutto, nel Liji 禮記 (Memorie sui riti),  in particolare nei capitoli 13, 26, 32, 34, 37, 49, 50, 51, 61.
8 Si rimanda, a tal riguardo, a tre studi di Robin D. S. Yates, “Body, Space, Time and Bureaucracy: Boundary Creation and Control Mechanisms in Early China”, in John Hay, a cura di, Boundaries in China (London: Reaktion Books, 1994), 56-80; “Cosmos, Central Authority, and Communities in the Early Chinese Empire,” in Susan E. Alcock et al. (a cura di), Empires (Cambridge: Cambridge University, 2000), 360-368; “Purity and Pollution in Early China,” in Integrated Studies of Chinese Archaeology and Historiography, Symposium Series of the Institute of History and Philology, Academia Sinica 4 (1997), 479-536.
9 Rinviamo al contributo di Attilio Andreini, Sulla Via della Catai, 2018/1, in corso di stampa.
10 Mark Elvin, “Three thousand years of unsustainable growth: China’s environment from archaic times to the present”, East Asian History, 6, 1993, 7-46; “The Environmental Legacy of Imperial China”, The China Quarterly, 156, Special Issue: China’s Environment, 1998, 733-756; The Retreat of the Elephants: An Environmental History of China (New Haven: Yale University Press), 2004; “Social Rights to the Use of Nature”, Environmental History, Vol. 10, 4, 2005, 684-686.
11 Per una disamina più approfondita sulla questione relativa alla dimensione dello “spirito” e del “divino”, rinviamo ad Attilio Andreini, “Categorie dello ‘spirito’ nella Cina pre-buddhista”, in Maurizio Pagano (a cura di), Lo Spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture (Milano, Udine: Mimesis), 71-107.
12 Huainanzi, 4/33/17.
13 Michael Puett, To Become a God: Cosmology, Sacrifice, and Self-Divinization in Early China (Cambridge, Mass: Harvard University Asia Center), 2002.