Molto interessanti sono gli sviluppi di questo dibattito avviato su Sinosfere grazie all’appello lanciato da Marco Fumian, che ci ha stimolati a un confronto sulle nuove sfide poste oggi al nostro ruolo di studiosi e conoscitori sotto vari aspetti della contemporaneità cinese. Assolutamente condivisibile è la maggior parte delle riflessioni sin qui proposte da vari colleghi e amici; allo stesso modo lo è l’esigenza di fissare innanzitutto i termini della discussione, evitando possibili tranelli derivanti da semplicistiche categorizzazioni in quanto anti-cinesi o filocinesi, come affermato da Guido Samarani.

Tuttavia, a rendere insidioso il campo è l’accentuazione di una polarizzazione sempre più esasperata nella percezione che si ha oggi della Repubblica popolare, presentata come una minaccia o esaltata quale fulgido esempio di grandezza e modernità. Tale dualismo non è comunque nuovo, come già sostenuto da Fabio Lanza; difatti non è un caso che un tipo di immagine molto simile fosse veicolata già alla fine degli anni ’50, secondo quanto dichiarava Teng Ssu-yü, prominente figura della cosiddetta “scuola di Harvard”.1)Teng Ssu-yü, “The Predispositions of Westerners in Treating Chinese History and Civilization”, The Historian, 19, 3, 1957, 307-27.

Ma oltre che a un periodo storico segnato dalla guerra fredda, questa dicotomia può essere riconducibile anche a un certo approccio ‘orientalista’, il prisma deformato attraverso cui spesso si guarda ancora alla Cina: considerare questo Paese e la sua civiltà come ‘altro’ scaturisce da una sorta di substrato inconscio, connesso a una falsa percezione delle reciproche diversità storiche e culturali. Ma la Cina non può essere ritenuta diversa o ‘eccezionale’ rispetto a noi, in quanto essa si confronta con le stesse istanze e problematicità nella complessità di un mondo sempre più interconnesso, come già argomentato da Ivan Franceschini.

Per esempio a livello globale, seppur con le debite differenze, stiamo assistendo a un utilizzo molto diffuso della narrazione come strumento caratterizzante della comunicazione politica e delle dinamiche di ricerca del consenso. Sulla scia di questo narrative turn, negli ultimi decenni la dimensione narratologica ha permeato ormai quasi ogni aspetto della politica contemporanea, con la capacità di presentarne i contenuti in quanto ‘storie’, che si rafforzano trovando sponda nelle paure, nei desideri e nei bisogni di coloro ai quali sono indirizzate.

Lo storytelling2)È importante notare che, oltre a trovare applicazione in ambito politico e in altri contesti, lo storytelling si è diffuso enormemente anche in campo aziendale e pubblicitario: nel presentarsi come un nuovo modello comunicativo e di marketing, esso attribuisce particolare importanza alla brand story, la storia della marca del prodotto, piuttosto che alla brand image, l’immagine della stessa. Cfr., Joe Pulizzi, “The Rise of Storytelling as the New Marketing”, Publishing Research Quarterly, 28, 2, 2012,116-123. è quindi un fenomeno che si è sviluppato non solo in Occidente, ma anche nel contesto cinese, dove si è raffinato in modo peculiare, come pratica diffusa nella costruzione del messaggio politico. Il culmine di questo processo è efficacemente esemplificato dallo slogan ufficializzato dal Presidente cinese Xi Jinping nel 2013: “raccontare bene la storia / le storie della Cina” (jiang hao Zhongguo gushi 讲好中国故事);3)“Xi Jinping xiang shijie jiang hao Zhongguo gushi de sixiang” (Il pensiero di Xi Jinping sul raccontare bene al mondo la storia della Cina), Renmin wang, 22/2/2019. un’espressione, questa, in cui il termine ‘storia’ non è riferito alla produzione storiografica, bensì all’oggetto narrativo di un racconto relativo ad avvenimenti reali o fittizi, capace di attirare l’attenzione del pubblico e di influenzarlo. Particolarmente rilevante in questa locuzione è l’avverbio hao, nell’accezione di una modalità ‘corretta’, cioè conforme alla visione del Partito Comunista e adeguata pertanto a essere divulgata non solo su scala nazionale, ma soprattutto all’estero. Le storie così diffuse non devono quindi essere necessariamente aderenti alla realtà, ma soltanto congruenti con la costruzione intenzionale di un’immagine necessariamente positiva del Paese, che contenga messaggi espliciti circa obiettivi futuri e modalità di azione, arrivando talvolta a forzare gli eventi o a distorcere fatti scomodi e discordanti.

Oltre che creare una forte empatia nei confronti del Partito al potere, questa narrazione possiede una ulteriore caratterizzazione strategica, finalizzata a rafforzare un’identità individuale e collettiva come nazione e popolo, attraverso il coinvolgimento cognitivo ed emotivo del singolo cittadino in un racconto corale. Anche in Cina, prima dell’avvento di internet e dei social media, la comunicazione politica procedeva con ritmi e intensità diverse; lo sviluppo delle nuove tecnologie ha agito come catalizzatore nell’accelerazione dei processi che hanno determinato un nuovo ordine narrativo, finalizzato a una più efficiente manipolazione e propaganda digitale.

In tale nuovo contesto, rispetto a quelle cinesi, molte delle nostre attuali narrazioni appaiono fragili, parcellizzate, fluttuanti in un sistema ‘liquido’, privo di un baricentro definito e sfumato verso un contesto non ideologico, dopo il tramonto dei grandi ‘racconti’ della modernità, consistenti e stabili soltanto fino ad alcuni decenni fa. Al contrario, le narrazioni della RPC si presentano come più solide, compatte, congruenti, soprattutto perché incorporano al loro interno un elemento che di solito appartiene invece alla categoria della contro-narrazione: la cultura. Infatti, è proprio da una prospettiva culturale e da basi cognitive più solide che si riesce a confutare facilmente molte delle nostre narrazioni politiche meno ben costruite e raffinate, soprattutto quelle riconducibili a molti fenomeni di sovranismo e populismo di destra e di sinistra. In modo opposto, una indiscussa percezione di solidità e di inoppugnabilità è apportata dal valore della millenaria civiltà cinese, sebbene i leader del PCC effettuino di essa un uso strumentale, secondo gli interessi della propaganda ufficiale e del nazionalismo pilotato dallo Stato. Nonostante la memoria storica sia quindi manipolata e i valori tradizionali presentati in forma idealizzata e mitizzata, il peso della cultura classica cinese conferisce in ogni caso una valenza notevole ai prodotti narrativi così confezionati, mettendoli al riparo da facili confutazioni.

È importante ricordare che la variabile culturale è un ingrediente importante di un altro tipo di strategia elaborata dalla Repubblica popolare, quella del soft power, volta a veicolare un messaggio positivo e rassicurante del Paese all’estero. Rispetto agli elementi individuati da Joseph Nye nella caratterizzazione del cosiddetto “potere morbido”,4)Secondo Nye, il soft power fa leva su risorse non tangibili, tra cui l’attrattività culturale, i valori e le politiche nazionali, i contenuti e lo stile della politica estera; cfr., Joseph S. Nye, Soft Power, The Means to Success in World Politics (New York: Public Affairs, 2004). gli ambienti accademici cinesi hanno favorito un’interpretazione del concetto in cui l’ambito culturale viene privilegiato come il nucleo fondante. Infatti, il primo lavoro accademico pubblicato in merito nella Repubblica popolare nel 1993 è stato un saggio dal titolo “La cultura come potere nazionale: il soft power,5)Wang Huning, “Zuowei guojia shili de wenhua: ruan quanli” (La cultura come potere nazionale: il soft power), Fudan Daxue Xuebao, 3, 1993, 23-28. a firma di Wang Huning, docente dell’Università Fudan di Shanghai e teorico del PCC, oggi membro del Comitato permanente del Politburo. Un’impostazione, questa, che è stata ampiamente accettata dalla comunità scientifica, influenzando i lavori successivi, fino a essere poi recepita anche a livello ufficiale: infatti il Presidente Hu Jintao, nel suo rapporto al XVII Congresso del PCC nel 2007, utilizzò pubblicamente il termine “soft power culturale” (wenhua ruan shili 文化软实力).6)“Hu Jintao zai Zhonggong di-Shiqi ci Quanguo Daibiao Dahui shang de baogao quanwen” (Testo integrale del rapporto di Hu Jintao al XVII Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese), Zhongyang zhengfu menhu wangzhan, 24/10/2007.

Quello appena descritto è un chiaro esempio di come in Cina, a differenza di altri Paesi, le costruzioni narratologiche e propagandistiche non siano frutto di improvvisazioni del momento, ma il risultato di una attenta pianificazione in campo ideologico e dottrinale, programmata nel medio-lungo periodo. Per tali motivazioni, l’elaborato storytelling made in the PRC è più difficile da decostruire e confutare, soprattutto da parte di chi non possiede una conoscenza adeguata di quel Paese, della sua cultura e delle sue dinamiche politiche e sociali.

Proprio rispetto a tutto ciò è rilevante il ruolo di noi studiosi, anche nei confronti delle generazioni più giovani, che spesso non riescono a sviluppare strumenti critici adeguati, diventando talvolta vittime inconsapevoli di una sorta di indottrinamento. Ma il nostro compito nell’attività di destrutturazione narrativa deve essere esteso ben oltre la Cina, verso tutti i tipi di storytellings che nei nostri Paesi pericolosamente popolano la comunicazione politica e non solo, evidenziandone fragilità e rischi. In conclusione, l’auspicio è quello di riuscire ovunque a portare alla luce quanto viene occultato dalle varie narrazioni dominanti, grazie all’indagine critica sorretta da un’autentica prospettiva culturale, che evidenzi le complessità nelle semplificazioni eccessive dello storytelling, cercando di guardare oltre il ‘fumo’ e gli ‘specchi’, al di là delle distorsioni e delle manipolazioni narrative.

 

Marina Miranda è professore ordinario di Storia della Cina contemporanea presso l’Università di Roma “Sapienza” e responsabile scientifico della sezione Asia Orientale del Dottorato di ricerca in “Civiltà dell’Asia e dell’Africa”, di cui è stata Coordinatore per due mandati. È inoltre autrice e curatrice dei seguenti volumi: L’Identità Nazionale nel XXI Secolo in Cina, Giappone, Corea, Tibet e Taiwan (2012); La Democrazia in Cina: le Diverse Formulazioni dagli Anni ’80 a Oggi (2013); La Cina dopo il 2012 – Dal centenario della prima repubblica al XVIII Congresso del Partito comunista (2013); Politica, società e cultura di una Cina in ascesa – L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato (2016); La Cina quarant’anni dopo Mao – Scelte, sviluppi e orientamenti della politica di Xi Jinping (2017).

References
1 Teng Ssu-yü, “The Predispositions of Westerners in Treating Chinese History and Civilization”, The Historian, 19, 3, 1957, 307-27.
2 È importante notare che, oltre a trovare applicazione in ambito politico e in altri contesti, lo storytelling si è diffuso enormemente anche in campo aziendale e pubblicitario: nel presentarsi come un nuovo modello comunicativo e di marketing, esso attribuisce particolare importanza alla brand story, la storia della marca del prodotto, piuttosto che alla brand image, l’immagine della stessa. Cfr., Joe Pulizzi, “The Rise of Storytelling as the New Marketing”, Publishing Research Quarterly, 28, 2, 2012,116-123.
3 “Xi Jinping xiang shijie jiang hao Zhongguo gushi de sixiang” (Il pensiero di Xi Jinping sul raccontare bene al mondo la storia della Cina), Renmin wang, 22/2/2019.
4 Secondo Nye, il soft power fa leva su risorse non tangibili, tra cui l’attrattività culturale, i valori e le politiche nazionali, i contenuti e lo stile della politica estera; cfr., Joseph S. Nye, Soft Power, The Means to Success in World Politics (New York: Public Affairs, 2004).
5 Wang Huning, “Zuowei guojia shili de wenhua: ruan quanli” (La cultura come potere nazionale: il soft power), Fudan Daxue Xuebao, 3, 1993, 23-28.
6 “Hu Jintao zai Zhonggong di-Shiqi ci Quanguo Daibiao Dahui shang de baogao quanwen” (Testo integrale del rapporto di Hu Jintao al XVII Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese), Zhongyang zhengfu menhu wangzhan, 24/10/2007.