Bisogna mescolarsi nella quotidianità con altre culture, meticciare di più. Bisogna dare a questo termine un significato positivo.1)Bamboo Hirst

1. Il 10 aprile 2020, nel pieno dell’ondata europea di Covid-19, si è spenta a ottant’anni la scrittrice Bamboo Hirst. Nonostante abbia senza dubbio lasciato un segno nella cultura contemporanea italiana, la sua dipartita non è stata segnalata dai media in alcun modo e si è manifestata al mondo unicamente attraverso un banale aggiornamento della pagina wikipedia a lei dedicata.

Nata dalla relazione tra un diplomatico italiano di stanza a Shanghai all’epoca delle concessioni e una donna cinese di etnia miao, la Hirst ha trascorso la sua infanzia in Cina nella missione cattolica francese di Shanghai, per poi recarsi in Italia, minore non accompagnata, all’età di 13 anni. Nella Milano degli anni Cinquanta, una volta chiaro che il padre non la avrebbe presa con sé, l’appena adolescente Bamboo, piuttosto che accettare l’adozione da parte di una famiglia locale, ha preferito rimanere in orfanotrofio. Da adulta, ha intrapreso poi una brillante carriera nel campo della moda, che, come si vedrà, ha affiancato a una generosa e continuativa produzione letteraria. Ha scelto successivamente di trasferirsi a Londra con il marito e la figlia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita.

Nell’arco di 25 anni l’autrice ha pubblicato in Italia una decina di romanzi, tutti incentrati su cinesità, femminilità e confronto tra culture cinese e italiana, insieme a una manciata di racconti su diverse antologie. Gli scritti della Hirst sono stati pubblicati da case editrici commerciali di primo piano (Mondadori e Feltrinelli tra le altre) e alcuni hanno avuto diverse riedizioni (tra i suoi principali lavori citerei almeno Inchiostro di Cina del 1987, Il riso non cresce sugli alberi del 1988, Passaggio a Shanghai del 1991, Blu Cina del 2005, Vado a Shanghai per comprarmi un cappello del 2008 e L’ultimo ballo nella città proibita del 2013). Blu Cina, il suo romanzo autobiografico di maggior successo, è stato anche pubblicato in inglese nel Regno Unito (Blue China, 2008) e successivamente in cinese nella RPC (Lan Zhongguo 蓝·中国, 2010). Nel corso della sua carriera Hirst ha goduto del sostegno di intellettuali di diverse aree. I suoi primi lavori sono stati pubblicati dalla casa editrice di Arci-Donna Palermo, La Luna, e poi dalla storica casa editrice femminista La Tartaruga. Successivamente, Bamboo Hirst è stata anche invitata a partecipare a due importanti antologie specializzate, comprendenti racconti di scrittori e scrittrici di origine straniera in Italia, Italiani per vocazione (2005), curata dalla intellettuale e scrittrice afroitaliana Igiaba Scego, e Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa (2006), curata dal noto comparatista Armando Gnisci. Un suo scritto è stato anche incluso, accanto a nomi quali Natalia Ginzburg, Dacia Maraini e Maria Bellonci, nell’antologia, pubblicata da Giunti, Il pozzo segreto (1998), che raccoglie scritti di cinquanta autrici italiane contemporanee. Fabrizia Ramondino, scrittrice impegnata su diverse questioni sociali, le ha dedicato un paio di recensioni e un articolo sull’Espresso.  Le edizioni inglese e cinese di Blu Cina, invece, vantano una consistente introduzione, che è anche un vivace endorsement, della nota giornalista e scrittrice inglese di origine cinese Xue Xinran, la quale descrive benevolmente Bamboo Hirst come “A Chinese Bamboo Growing in the West”. Ma Bamboo Hirst non è stata solo sostenuta in ambienti di nicchia o in elitari circoli letterari, al contrario, è un personaggio che in diversi momenti è stato anche investito di una certa popolarità di massa. Negli anni Ottanta è stata ospite fissa nel seguitissimo salotto televisivo del Maurizio Costanzo Show e, successivamente, con l’uscita di Blu Cina, diverse testate di ampia diffusione quali Donna moderna, L’Espresso, iO Donna le hanno dedicato spazio, provando a inquadrarla come modello italiano di scrittrice del femminile e della complessità culturale, seppure entrambi questi tratti a volte abbiano finito per essere trattati da tali pubblicazioni con una certa superficialità orientalizzante ed esotizzante.

Questa breve panoramica sulla vita della Hirst e sul suo contributo alla cultura italiana contemporanea ha lo scopo di spiegare lo stupore che evoca il completo e assoluto silenzio seguito alla sua morte. Non un servizio televisivo, giornalistico, non un ricordo personale della scrittrice a tutt’oggi hanno visto la luce, a distanza di diversi mesi dalla sua morte. Prima di mettere questo silenzio in relazione con l’altro silenzio che ha avvolto i recenti tentativi di espressione da parte di cinesi e sinodiscendenti in Italia, vorrei provare a tratteggiare alcuni elementi della sua produzione letteraria che l’hanno distinta da altri autori e autrici, con la precisa finalità di riconoscerle l’importante ruolo che ha svolto nello sviluppo di un’identità culturale sinoitaliana fluida e, come forse avrebbe detto lei stessa, “meticciata”.

La lunga e continuativa produzione letteraria di Bamboo Hirst ha importanti punti di contatto con una ormai consolidata tradizione di scrittrici cinesi o sinodiscendenti attive fuori dalla Cina che hanno dedicato la loro attenzione all’esperienza della donna cinese contemporanea, focalizzandosi in particolare sulla loro resistenza a una certa tradizione patriarcale cinese (Jung Chang, Maxine Hong Kingston, Amy Tan, Xin Xueran, solo per nominare alcune tra le più note). I suoi lavori infatti riprendono alcuni temi già esplorati – mi spingerei a dire “addomesticati” – dal mercato culturale mainstream euroamericano. Sul racconto orientalizzante della barbarie cinese, però, la Hirst innesta due ulteriori modalità narrative, che ricorrono in vario modo nella sua produzione, quella della narrazione odeporica e quella autobiografica, dando vita così ad uno stile più personale. In realtà, l’intreccio di istanze moderatamente femministe, il racconto autobiografico e la centralità del tema del viaggio sono presenti anche in un’altra importante autrice sinoitaliana, Hu Lanbo, la quale però propone ai suoi lettori italiani una scrittura molto più didattica e prescrittiva di quanto faccia Bamboo Hirst. La Hirst, però, pur mantenendo il suo racconto sempre su una dimensione personale e soggettiva, condivide comunque con la quasi totalità degli altri scrittori e scrittrici sinoitaliani la centralità del tema del confronto tra cultura cinese e italiana, nutrendo così con i suoi lavori un filone letterario piuttosto affermato che potrebbe essere definito “letteratura italiana della cinesità”. Il romanzo che in qualche modo riunisce tutti i suoi lavori precedenti e li completa, Blu Cina è appunto una sorta di autobiografia, che nella sua prima parte racconta la relazione tra i suoi genitori sullo sfondo della Cina degli anni ’20 e ’30, successivamente racconta il travaglio legato all’adattamento alla vita italiana dell’adolescente Bamboo, e infine racconta il suo viaggio ormai adulta in Cina in cerca delle tracce del suo passato. Si tratta di un romanzo di formazione, per certi versi, che ripercorre le fasi dell’elaborazione di un’identità culturale molto personale. L’autrice racconta come nascondersi e camuffarsi abbiano costituito un leitmotiv della sua vita, citando l’episodio in cui ha dovuto nascondere il suo naso “europeo” dietro un ventaglio quando in Cina il suo collegio era stato perquisito dalle truppe giapponesi in cerca di nemici. O di quando poi in Italia sia stata forzatamente mascherata con codini posticci da Pikekai, protagonista maschile cinese e macchiettistico della sua recita di fine anno a scuola. Nel contemplare il dispiegarsi del racconto di autoaffermazione di Bamboo Hirst, si osserva come il mascherarsi appaia per l’autrice una pratica che dapprima è costretta a subire, ma di cui con il tempo riesce ad appropriarsi, fino ad arrivare al punto di “performare” in tutta disinvoltura la propria mutevole identità culturale. Bamboo Hirst performa la sua identità culturale (e ci parla con orgoglio di questa sua abilità) su piani diversi e in diverse arene. Lo fa indossando abiti tradizionali cinesi quando è ospite in un salotto televisivo, lo fa facendosi fotografare con un ventaglio sul volto per la copertina dell’edizione cinese di Blu Cina. Lo ha fatto quando ha scelto da sola il proprio nome, Bamboo, una volta arrivata in Italia (il suo nome di battesimo era Rose Marie Minella). Specularmente, la prospettiva da cui ci racconta la Cina, sebbene ripetutamente l’autrice affermi di sentirsi principalmente e originariamente cinese, rivela una visione più comunemente italiana, fatta di estetizzazione della cultura cinese, orientalizzazione e razzializzazione. Una visione romantica ed essenzialista della Cina, che, tra le altre cose, rimanda a una prospettiva edulcorata e glamour, se non quasi apologetica, del colonialismo italiano. Ma, naturalmente, non è il livello di autenticità dell’appartenenza culturale della Hirst a essere in discussione, anzi, è proprio questa capacità di gestire in modo libero e spregiudicato la rappresentazione della propria appartenenza culturale, soggettivata e individuale, che rende la Hirst così interessante. Il suo senso di “displacement”, come notato da Joanna Sarah Lee, che a lei ha dedicato un articolo e parte della sua tesi di dottorato, non è dovuto al suo essere una “mezzo sangue”, una hunxue’er 混血儿, quanto invece dal trauma di non riuscire a trovare rifugio in una famiglia. Lasciata in un collegio francese cattolico da bambina, una volta in Italia, quando appena adolescente si rende conto che suo padre non verrà ad accoglierla per prendersene cura, Hirst sceglie nuovamente l’orfanotrofio, dando inizio ad un processo di forte affermazione individuale, che la porterà poi anche a cambiare nome e a costruirsi in maniera del tutto autonoma anche una notevole carriera sia come imprenditrice che come artista. Il suo giocare con le identità culturali dunque non è espressione di sofferenza, anzi, è quasi una sfida a flettere queste identità verso il loro limite (una sorta di queering, se vogliamo), superando una concezione binaria dell’identità culturale che le risulta riduttiva, data la sua forte voglia di affermazione soggettiva.

2.Il 2020 è stato senza dubbio l’anno in cui i cinesi d’Italia si sono fatti sentire, o, almeno, hanno provato a fare rumore. Se è vero che in passato ci sono stati diversi episodi di rumorose proteste di strada da parte di specifici gruppi di lavoratori cinesi (penso alla rivolta di Via Sarpi a Milano del 2007 o a quella di Firenze del 2016) o partecipate manifestazioni pubbliche di cordoglio come quelle per l’uccisione della piccola Joy e di suo padre a Roma nel 2012 o per le sette vittime del rogo nel laboratorio di confezioni di Prato nel 2013, la risposta individuale, multimediale, trasversale che tanti cinesi e sinodiscendenti hanno espresso nello spazio culturale condiviso italiano nei mesi precedenti e successivi all’arrivo del Covid-19 in Italia non ha precedenti per portata, profondità e originalità.

L’establishment culturale e i media italiani, tuttavia, secondo un meccanismo tipico dello sguardo orientalista, sembrano considerare unicamente la presenza dei cinesi in Italia (così come di altri immigrati) come un oggetto di osservazione, incapace (o non all’altezza) di produrre cultura e di partecipare attivamente alla costruzione della società italiana. Persino le succitate manifestazioni pubbliche, quando non sono state apertamente ignorate o dimenticate rapidamente per tornare ad onorare l’inscalfibile presupposto che i cinesi siano una comunità silenziosa e passiva, sono state comunque raccontate come un loro contro noi, essenzializzando e semplificando quelle specificità, implicazioni e complessità che le hanno generate e che hanno dato loro forma. Il caso del 2020 è particolarmente interessante perché la razzializzazione della malattia in una prima fase (quella dei ricorrenti attacchi fisici e verbali a persone di apparenza cinese) e poi la riduzione dei cinesi a comunità modello in una seconda fase, cronologicamente molto ravvicinata, ci permettono di osservare in maniera ancora più precisa sia il persistere della oggettificazione e orientalizzazione dei cinesi e sinodiscendenti da parte dell’establishment culturale e dei media italiani anche in condizioni molto diverse, sia il silenziamento di questa componente della società italiana che da tale oggettificazione e orientalizzazione scaturisce. Un altro elemento che rende particolarmente interessante la voce sinoitaliana che si è espressa in questo 2020, non solo nel suo valore intrinseco, ma anche come case study, è il fatto che è una voce che si è fatta udire in circostanze molto simili a quelle di un frangente precedente, quello della diffusione della SARS avvenuta nel 2003. Se le reazioni italiane all’epoca non furono purtroppo molto diverse da quelle delle prime fasi di diffusione del Covid-19 (episodi di sinofobia, boicottaggio delle attività commerciali e di ristorazione gestite da cinesi), le reazioni di cinesi e sinodiscendenti in Italia, la cui voce non si era sentita nel 2003, nel 2020 sono state invece immediate, udibili, visibili ed emblematiche di un sentire sinoitaliano che ambisce a superare il noi vs voi.

Un fattore oggettivo che ha sicuramente facilitato l’espressione pubblica dei cinesi rispetto all’epoca SARS è la diffusione dei social network che hanno permesso anche ai singoli di esprimersi senza doversi accaparrare un posto nelle arene pubbliche già assegnate a soggetti sociali più forti. Nella Tv e in testate di ampia diffusione, diversi cinesi e sinodiscendenti sono riusciti a prendere parola, soprattutto nella prima fase dell’epidemia, nel tentativo di controbattere l’ondata sinofobica che rapidamente ha investito il Paese. Mi riferisco ad esempio alla partecipazione dell’attore e scrittore Shi Yang Shi e dello youtuber Jerry Hu alla trasmissione televisiva Diritto e rovescio o al lungo articolo dell’imprenditore e presidente onorario dell’Unione Imprenditori Italia Cina (UIIC) Francesco Wu su Vanity Fair, o ancora ai tanti articoli su La Nazione e alla partecipazione al programma televisivo Propaganda live della giornalista pratese Miaomiao Huang, o ancora all’intervista della nota ristoratrice romana Sonia Zhou per The Guardian. L’imprenditrice Giada Zhang ha preso parola in un servizio del TGcom 24 e Emaax, giovane youtuber napoletano di origine cinese, è stato soggetto di un servizio sul programma televisivo Agorà, mentre l’artista cinese con base a Roma Wang Juanni ha partecipato ad alcuni servizi pubblicati sul freepress di ampia diffusione Leggo.

I commenti più vivaci all’epopea Covid italiana, però, i sinoitaliani li hanno prodotti (o quantomeno riprodotti) sui social media. Molto ricco e variegato è stato il contributo di cinesi e sinodiscendenti su questi canali, utilizzati sia come strumento di informazione indipendente che come piattaforma espressiva. Volendo rimanere sul piano dei social utilizzati principalmente in Italia, YouTube, Facebook, TikTok, e quindi alla comunicazione espressa principalmente in lingua italiana (senza dunque toccare la community huarenjie, i gruppi wechat e altri strumenti fruiti quasi esclusivamente in cinese), il succitato Jerry Hu, ad esempio, ha utilizzato ampiamente i social per proporre servizi giornalistici casalinghi soprattutto in polemica con l’informazione mainstream italiana, mentre lo scrittore e cultural mover di base a Roma Marco Wong ha creato una serie di webinar su facebook su temi storici, letterari e culturali che in maniera diversa hanno a che fare con la presenza cinese in Italia. Analogamente, Sun Wenlong, giovane di origine cinese di base a Bologna, ha inaugurato nel periodo del lockdown una sorta di rubrica di intrattenimento su facebook in cui intervista persone legate in vario modo alla realtà cinese contemporanea su vari temi di attualità (Due chiacchiere con…).

Per quanto riguarda la sfera creativa vera e propria, una modalità espressiva che si è distinta soprattutto nell’associazionismo è quella della produzione di video di sostegno morale ai cittadini cinesi e italiani nella lotta al Covid-19;  è il caso, ad esempio, del video curato dalle associazioni cinesi di Firenze, che mostra vari personaggi chiave dell’associazionismo cinese locale cantare la canzone Wuhan mingtian 武汉明天, canzone in cinese scritta per l’occasione; oppure quello del video Noi rimaniamo (Women liuxia 我们留下) dell’Associazione italo-cinese Zhi Song di Torino, che mostra una carrellata di persone di origine cinese che recitano un testo in cui rivendicano la propria completa e affezionata appartenenza alla società italiana, come risposta alle frequenti accuse di inassimilabilità mosse ai cinesi d’Italia. Anche l’Unione Giovani Italo Cinesi (UGIC), in particolare Francesco Xia e Federico Martigli Jiang, ha proposto un video di questo tipo, intitolato Italia resisti, in cui curiosamente non compare nessun volto asiatico, ma una voce fuori campo invita gli italiani a rimanere in casa e ad avere pazienza, mentre scorrono immagini di vita sociale spensierata e bellezze artistiche e paesaggistiche italiane.

Al di là dell’associazionismo, più personali sono i video e i due brani di musica trap relativi, Covid-19 freestyle e Coronavirus, proposti da Emaax. Il “cinese napoletano”, come si definisce lui stesso, da diversi anni pubblica filmati comici su varie piattaforme online e nel tempo si è costruito un certo seguito. Le canzoni proposte da Emaax in questo caso, però, non sono pensate per far ridere, quanto volte ad offrire la prospettiva di un giovane sinoitaliano e i problemi specifici che deve affrontare durante la diffusione del virus, a partire dalle forme di razzismo nei suoi confronti, all’impossibilità temporanea di andare in Cina. Molto diverso è il contributo espresso nel video Curami (Zhiliao wo 治疗我), curato dai “fischiatori” (manifestazione locale del più ampio movimento internazionale dei whistleblowers, chuishaoren 吹哨人, in sostegno al medico Li Wenliang, tra i primi in RPC a denunciare l’esistenza del virus), in collaborazione con il collettivo multidisciplinare WUXU 务虚, composto prevalentemente da giovani artisti e intellettuali cinesi di base a Bologna. Il video consiste in un montaggio molto provocatorio di immagini tratte dal web che mostrano diversi aspetti della risposta all’epidemia in RPC, illuminando le contraddizioni relative alla gestione del potere e del controllo centrale e locale. Le immagini sono accompagnate dal brano del 1986 Curami, del gruppo punk emiliano CCCP, qui sottotitolato in cinese e in inglese.

Nelle arti figurative, l’illustrazione si è mostrata uno strumento immediato, anche in virtù del suo carattere più popolare, e quindi particolarmente adatto a rappresentare in maniera rapida e diretta il vissuto specifico di molti tra cinesi e sinodiscendenti in Italia durante la pandemia. Molte bacheche facebook sinoitaliane si sono popolate di immagini di incoraggiamento, di speranza, di denuncia del pregiudizio. Si incornicia in questa ottica il fumetto Virus, di Marco Huang, che a febbraio del 2020, quando ancora il Covid-19 era nell’opinione pubblica la malattia portata in Italia dai cinesi, racconta di un’immediata distopia in cui i cinesi sono gli unici a rimanere non contagiati perché indossano le mascherine, ma sono costretti a vivere nascosti tra le macerie di una Italia in cui il resto della popolazione è stata trasformata inesorabilmente dal “virus” in una sorta di zombie che vanno a caccia di “cinesi” per poterli contagiare.

Come è naturale aspettarsi, anche chi già produceva cultura prima dell’arrivo del virus ha continuato a farlo, spesso declinando i propri lavori in reazione alle nuove circostanze. L’illustratrice Chen Xi, al momento residente a Manchester, ha pubblicato su varie piattaforme online una serie di illustrazioni tematiche che da un lato raccontano la sua quarantena inglese volontaria con una bimba piccola, ma che riprendono anche eventi della cronaca italiana di quei giorni, come la celebrazione di Italica Grondona, donna genovese di 102 anni, che è sopravvissuta al Covid-19.  Analogamente altri artisti hanno inserito elementi legati alla specificità del periodo del lockdown nelle loro opere, come avviene per uno dei quadri di Mao Wen, docente di lingua cinese presso l’Università di Torino, ma anche scrittore, regista e pittore amatoriale, che in quel periodo ha pubblicato sulla sua pagina facebook un paesaggio intitolato Chiesa Santa Maria con affissi necrologici e un uomo che passa con la maschera. La già citata artista Wang Juanni, che è tra le animatrici della galleria d’arte Trart a Roma, specializzata in opere di artisti cinesi, quando il Covid-19 si è abbattuto sul territorio italiano era nel pieno di un progetto artistico che prevedeva che lei facesse un autoritratto al giorno con le tecniche più disparate per un intero anno. Diversi autoritratti di quei giorni dunque la vedono rappresentata con una mascherina sul volto, inequivocabile legame ai nuovi avvenimenti. Anche l’attore ed autore Shi Yang Shi ha in qualche modo riletto la sua attività professionale di interprete ed attore dedicandosi a una lettura e traduzione estemporanea in diretta facebook del Diario di Wuhan (Wuhan riji 武汉日记) di Fang Fang. L’evento, nato in maniera casuale, si è trasformato in una sorta di performance che ha visto l’attore impegnato senza pausa per molte ore consecutive.  Già in febbraio, l’artista aveva consegnato di persona al presidente Mattarella una sua poesia, La chimera di Cislago, nata da un’esperienza di riflessione collettiva sul tema del Covid-19, il cui testo ha poi riproposto in una sua performance durante gli eventi legati alla Milano Fashion Week.

Altri artisti cinesi o di origine cinese hanno scelto invece di esprimere nello spazio pubblico la loro reazione agli sconvolgimenti portati dal Covid-19. Nell’area toscana, Ai Teng, l’artista cinese di base a Firenze che era stata chiamata a partecipare con il suo lavoro ai festeggiamenti per il Capodanno cinese a Prato, una volta che tali festeggiamenti sono stati cancellati, ha deciso di portare comunque a termine il suo lavoro, leggendolo in una prospettiva diversa. La performance in questione ha previsto l’affissione di 716 immagini augurali (nianhua 年画) per la città di Prato, con il dichiarato intento di proteggere la città dalla diffusione del virus. Un altro progetto, curato da un gruppo di giovani artisti cinesi facenti capo all’Accademia d’arte di Firenze, ha previsto invece la performance di alcuni rituali che ricordavano certi esorcismi taoisti (quxie 驱邪), svolti da persone in tute mediche nel centro della città di Firenze. Firenze è stata anche sfondo di un’altra performance, più vicina al flashmob nell’attuazione. In risposta alla campagna lanciata in Francia #JeNeSuisPasUnVirus, che ha visto molti cinesi e sinodiscendenti utilizzare in vario modo il relativo hashtag per controbattere agli episodi di sinofobia così comuni nelle prime fasi dell’epidemia, un giovane cinese ha richiesto di essere abbracciato dai passanti che visitavano i monumenti fiorentini, con il preciso obbiettivo di sfatare il sospetto di contagio di cui era accusato in quel momento chiunque avesse lineamenti asiatici. Lo stesso hashtag #nonsonounvirus è stato poi utilizzato anche per una campagna mediatica sugli stessi temi, portata avanti con entusiasmo dalla giovane giornalista pratese di origine cinese Miaomiao Huang. I cinesi di Prato sono stati in vario modo sotto lo sguardo attento dei media, sia quando secondo i media sembrava certo che Prato con la sua alta concentrazione di cittadini cinesi sarebbe divenuta il cancello attraverso cui il Covid sarebbe entrato in Italia, sia quando poi, in seguito, i cinesi di Prato sono stati invece dipinti dagli stessi media come comunità modello proprio in virtù dell’attenzione alle pratiche di distanziamento sociale da loro portate avanti. L’associazione dei motociclisti cinesi di Prato (si, davvero, si chiama Club Husky Motociclisti di Prato Pulatuo Hashiqi zhongji julebu 普拉托哈士骑重机俱乐部) ha finanziato una campagna fatta di grandi cartelloni pubblicitari con messaggi in cinese e in italiano di incoraggiamento sparsi per la città.  Anche se il gesto in questione rivela una precisa volontà di partecipare allo spazio pubblico della città toscana, non può forse di per sé essere inserito a pieno titolo nel repertorio delle espressioni artistiche dei cinesi d’Italia. Mentre l’utilizzo che la giovane ricercatrice statunitense di origine cinese Julie Chen fa delle foto di quei cartelloni, da lei inserite in un blog di arte e poesia, ha invece senza dubbio questo tipo di finalità. Pratopoetryclub è un blog mistilingue legato a una azione di street art che Julie Chen ha portato avanti fino a quando non è poi dovuta tornare negli USA a causa della pandemia. La ricercatrice ha affisso in giro per la città di Prato degli adesivi che riproducono nel layout i comunissimi annunci di prostituzione scritti in cinese per gli uomini cinesi di Prato, piccoli rettangoli bianchi con pochi caratteri neri e un numero di cellulare che però, invece di riportare frasi teaser come “ragazzina maliziosa” tiaoqing xiao nühai 调情小女孩, o “sorellina voluttuosa” wenrou xiaomei  温柔小妹, recitano “gli stranieri non riescono a leggere” laowai kan bu dong 老外看不懂 e poi un indirizzo web, al quale, chi coraggiosamente accede troverà un blog principalmente fotografico che mostra alcune immagini che riportano tracce della cultura sinopratese, purtroppo brutalmente interrotto dalla partenza dell’autrice. Sul territorio romano invece, il giovane artista cinese Wang Yuxiang ha ideato un’azione sul territorio, intitolata Lettera blu, che ha previsto la distribuzione gratuita ad estranei di mascherine protettive, una pratica che ha accomunato molti cinesi e sinodiscendenti, personalizzate con suoi dipinti e frasi poetiche. Alcune di tali mascherine sono state affisse in spazi pubblici dove potevano essere raccolte liberamente dai passanti, altre sono state consegnate direttamente dall’artista a sconosciuti. L’azione è stata riportata in un video, anche questo condiviso sui social network.

La risposta culturale al Covid da parte di cinesi in Italia più organica e strutturata è forse quella proposta dal già citato collettivo WUXU, che con il progetto Sishi ri tan 四十日谈 4XDecameron si è prefisso proprio di “coinvolgere sempre più persone a riflettere sugli eventi e sui fenomeni causati da questo stato di urgenza”, secondo la stessa descrizione del progetto sulla pagina facebook di riferimento. WUXU è un gruppo di artisti e intellettuali principalmente cinesi di base a Bologna che da qualche anno si offre come antenna per attivare e far convergere attività politiche, sociali e culturali che in vario modo coinvolgano studenti cinesi, con la finalità di costruire una consapevolezza di gruppo e agire sul territorio e sulla società, coinvolgendo anche intellettuali e attivisti della RPC e operai e contadini cinesi che risiedono in Italia. Il progetto 4XDecameron, il cui logo è un’immagine di Boccaccio in tuta sanitaria, si prefigge di fornire tutte le informazioni pratiche necessarie a fronteggiare l’epidemia in Italia a tutte le persone cinesi che qui vivono, ma che per varie ragioni non conoscono l’italiano o non sono in grado di seguire i media locali. Il progetto pur nascendo in Italia si estende al di fuori dei confini nazionali e coinvolge anche molte persone nella RPC, basti pensare che l’account ufficiale su wechat di WUXU dopo l’avvio del progetto è passato da 1000 contatti a 7300. Il progetto 4XDecameron ha portato avanti in modo del tutto volontario un’opera massiccia di traduzione di materiali riguardanti i vari Dpcm, le questioni sanitarie locali e le informazioni dei media mainstream. Al contempo però il progetto si è anche prefisso di coinvolgere i cinesi residenti in Italia nel dibattito culturale che ha accompagnato l’arrivo del Covid-19, ad esempio traducendo in cinese i famosi interventi a riguardo di Agamben, Cacciari e Bifo. Con uno stile che sembra caratterizzare il lavoro di WUXU, a fianco delle traduzioni degli interventi dei succitati filosofi, 4X Decameron ha anche proposto una parallela azione di natura più pop, ovvero una call for memes, volta a raccogliere meme relativi al Covid e a tradurli in italiano e cinese. Le azioni del progetto però non si sono limitate al lavoro di selezione, traduzione e diffusione di materiali; il gruppo infatti ha raccolto anche contributi originali, come diari, scritti o video, della quarantena di giovani cinesi in diverse parti d’Italia. Un interessante prodotto che si lega alle pratiche dei diari della quarantena è poi anche un video che il gruppo dietro al progetto ha girato e che raccoglie le testimonianze di alcuni studenti cinesi rimasti bloccati in Italia durante il lockdown e ne riporta timori, speranze e impressioni di quel periodo.

La forma espressiva che in misura minore ha canalizzato il sentire di cinesi e sinodiscendenti in Italia nelle prime fasi della diffusione del Covid-19 e durante il lockdown è stata la letteratura. Questo ha probabilmente a che fare con una universale difficoltà a misurarsi con forme espressive complesse durante una esperienza di trauma, come confermato in diversi resoconti sull’impatto del Covid-19 a livello globale. Si comprende dunque in quest’ottica come mai i primi testi organici sull’esperienza del Covid in Italia, i cinesi e sinoitaliani li abbiano prodotti solo a conclusione della lunga quarantena. Si citano qui i due lavori di imminente pubblicazione, Semi di tè, di Lala Hu, docente di marketing all’Università Cattolica del Sacro Cuore e scrittrice di origine cinese, e il volume collettaneo curato dalla succitata giornalista e scrittrice di base a Roma Hu Lanbo. Il primo è un lavoro narrativo che si ispira alle reali esperienze e iniziative di solidarietà tra cinesi e italiani che hanno avuto luogo durante la diffusione del virus, mentre il secondo raccoglie riflessioni sul Covid da parte di persone di origine cinese attive in campo sociale o culturale in Italia e rappresenta il primo tentativo sistematico di presentare il gruppo sinoitaliano come un soggetto riconosciuto, variegato al suo interno, ma comunque compatto e in grado di occupare un suo preciso spazio nel panorama culturale italiano contemporaneo.

3.I tanti cinesi, sinodiscendenti e sinoitaliani d’Italia si sono ritrovati uniti, forse per la prima volta, nell’affrontare nel giro di un paio di mesi un trauma triplice. Un primo trauma è stato quello causato dall’osservare da lontano la rapida diffusione del Covid-19 nella RPC, con il conseguente repentino azzeramento dei festeggiamenti per la festa di primavera, i lockdown radicali e le misure locali a volte brutalmente coercitive che abbiamo visto su internet. Il secondo trauma è riconducibile all’ondata di sinofobia che ha attraversato l’Italia e che ha prima svuotato sistematicamente i ristoranti e tutte le attività con titolare cinese e poi si è manifestata con attacchi fisici e verbali a persone di apparenza cinese. Il terzo trauma è stato quello condiviso con il resto della società italiana a partire dall’istituzione delle prime zone rosse e poi per tutto il periodo del lockdown. Questa situazione di eccezionalità ha sollecitato in maniera fino ad allora inedita questa fetta di popolazione, attivando rapidamente in essa la ricerca di nuovi linguaggi per reagire a tali traumi e innescando la volontà di partecipazione attiva ai cambiamenti sociali in atto localmente. Cinesi e discendenti che vivono in Italia sono stati per forza di cose più consapevoli rispetto al resto della società della dimensione globale della pandemia e del suo portato di conflitti, già evidente in RPC e che ha preso nuove forme in Italia, coinvolgendo una serie di nuovi soggetti (tra cui chiaramente le istituzioni governative cinesi, ma anche i movimenti transnazionali di resistenza al controllo istituzionale cinese, come si è visto per il gruppo dei fischiatori). In questa tempesta di traumi, conflitti e continuo re-inquadramento dell’attualità, sono emerse con forza dal basso azioni, voci e mobilitazioni di vario tipo che si sono distinte proprio per il loro desiderio di agire (in senso anche culturale) nella comunità locale. In questa occasione si sono distinte da parte di tanti cinesi e sinoitaliani azioni spontanee di attenzione al vicinato (attraverso il dono di mascherine protettive), raccolte di fondi, iniziative di cura di vario tipo, appelli alla solidarietà, inviti a combattere il razzismo, slanci espressivi nello spazio pubblico: tutte azioni che rivelano un attaccamento al contesto e una, forse nuova, consapevolezza di interdipendenza tra membri di una stessa comunità.

Queste considerazioni si legano facilmente al concetto di interdipendenza definito nell’ultimo lavoro di Judith Butler The Force of Non-Violence: An Ethico-Political Bind (2020).2)Judith Butler, The Force of Non-Violence: An Ethico-Political Bind, (London/New York: Verso, 2020). Le parole di Butler in questo articolo sono tratte dall’intervista che le ha fatto Masha Gessen  e pubblicata dal New Yorker il 9 febbraio 2020. La filosofa non solo sottolinea quanto l’illusione dell’indipendenza dell’individuo sia un concetto superato, ma propone appunto una forma di ethos che muova dall’attenzione alle relazioni che ogni individuo ha con gli altri che lo supportano e ne permettono la stessa esistenza (“the self I am trying to defend is not just me but all those relations that define and sustain me”). Nel suo ragionamento Butler osserva che eventi estremi come una pandemia mostrano come le società non considerino le vite come avessero tutte lo stesso valore, ma come certe vite vengano ritenute avere meno valore di altre e per questo in situazioni estreme vengano trascurate (neglect) e persino lasciate morire (left to die). La non violenza attiva di cui lei parla dunque va indirizzata anche a contrastare i tipi di violenza istituzionale che permettono questa disparità nel valore delle vite “anything that jeopardizes the lives of others through explicit policy or through negligence – and that would include all kinds of public policies or state policies – are practices of institutional or systemic violence”.

Se, fortunatamente, la diffusione della malattia non ci ha portato a dover scegliere tra vite di maggiore o minore valore, se non tra le corsie degli ospedali, sembra evidente però che alcune voci siano state sistematicamente interpretate come più “trascurabili”. Se i volti dei cinesi d’Italia hanno avuto visibilità nella fase della sinofobia, nelle fasi successive della pandemia non sembra ci sia stata altrettanta attenzione alla manifestazione espressiva e all’azione degli stessi soggetti sul territorio. Per dirla con Spivak, il subalterno evidentemente non può ancora parlare, a meno che non sia per mostrare la sua vulnerabilità, la sua posizione di vittima e appunto di subalterno. E così, per riprendere uno stereotipo tanto comune sugli immigrati cinesi, quella cinese è passata dall’essere la comunità silenziosa ad essere comunità silenziata. Si tratta dunque di fare uno sforzo insieme e provare a superare la cornice orientalista con cui viene sempre inquadrata la produzione culturale sinoitaliana, riconoscendo le diverse soggettività al suo interno, ascoltando con attenzione queste voci. Si tratta di impegnarsi insieme a “decolonizzare” l’espressione culturale e artistica sinoitaliana, perché solo così se ne potrà valorizzare il prezioso apporto alla cultura italiana contemporanea e salvare queste manifestazioni dalla strumentalizzazione delle comunità cinesi d’oltremare che l’attuale leadership della RPC sta mettendo in atto in maniera sempre più aggressiva. Cinesi e sinodiscendenti sembrano averci preso gusto e l’arena che hanno conquistato sopravvivendo ad una pandemia mondiale non vogliono abbandonarla, escono nuovi libri e sono in cantiere nuove iniziative. Ci si augura che il silenzio che ha seguito la morte di Bamboo Hirst sia il requiem alla fine di un periodo in cui l’interdipendenza delle nostre vite non era ancora così drammaticamente sotto i nostri occhi. Forse certi concetti che nella cultura cinese hanno una lunga tradizione e che sono emersi con evidenza tra cinesi e sinodiscendenti in Italia in questi giorni, concetti quali quelli di relazione, comunità,cura, possono diventare un’eredità preziosa per il futuro della cultura italiana.

Pedone (Non) Fai Rumore PDF

Immagine: Foto di Juanni Wang – Instagram @ juanniwang

Valentina Pedone insegna lingua e letteratura cinese presso l’Università di Firenze ed è co-editor della collana di studi cinesi e giapponesi Florientalia Asian Studies Series. Si occupa da molti anni di aspetti culturali della migrazione cinese in Italia.

 

 

 

References
1 Bamboo Hirst
2 Judith Butler, The Force of Non-Violence: An Ethico-Political Bind, (London/New York: Verso, 2020). Le parole di Butler in questo articolo sono tratte dall’intervista che le ha fatto Masha Gessen  e pubblicata dal New Yorker il 9 febbraio 2020.